Il manifesto, 25 luglio 2015
È appena stata battezzata la nuova tribù degli “antibenicomunisti” capitanati dall’Istituto Bruno Leoni e promossa da Pierluigi Battista sulla grande stampa (il Corriere della Sera di giovedì scorso). L’obiettivo è imputare al “benicomunismo” di essere la «solita minestra statalista e dirigista che ha nutrito per oltre un secolo la sinistra». Si tratta di una formidabile mistificazione, ma ancor più significa non comprendere proprio il carattere innovativo e contemporaneo che sta alla base della teoria e dei movimenti dei beni comuni.
Per dirla in estrema sintesi, è evidente che Battista è poco avvezzo ad un pensiero che si situa dentro la specificità del capitalismo finanziario e della sua crisi e che si distanzia proprio da un’idea di pubblico statalista che ha accomunato la cultura della sinistra novecentesca, sia quella di estrazione comunista che di quella socialdemocratica.
La vera novità esplicitata dalla teoria e dai movimenti dei beni comuni, in opposizione al modello neoliberista, sta proprio nel vedere la generale mercificazione dei beni e dell’attività umana e, dunque, nell’affermare che i beni ad appartenenza collettiva alla base dei diritti umani fondamentali non possono essere consegnati al mercato e che, anzi, vanno gestiti in modo diffuso e partecipato.
Se proprio si vuole trovare un antecedente illustre in quest’approccio, più che a Proudhon, bisogna guardare a Polanyi che , non a caso, scrive sulla grande crisi del capitalismo degli anni ’30 del secolo scorso, e che già allora evidenzia che quando si vuol ridurre lavoro, terra (e cioè beni comuni) e moneta puramente a merce, essi si prendono la loro rivincita e rivelano come il mercato autoregolantesi sia, contemporaneamente, una grande costruzione artificiale e una grande illusione.
Ma quello che mi spinge a prendere in considerazione il ragionamento di Battista non sta tanto nel misurarsi su questi temi di fondo, quanto il suo intento dichiarato di voler sferrare un’offensiva contro l’ “ideologia dei beni comuni”, prendendo atto che essa ha segnato diversi punti a suo favore, e di chiedere che la politica si spenda con forza su questa strada. Per fare questo Battista non esita a ricorrere ad accostamenti perlomeno arditi, come quando riduce il tema della democrazia partecipativa ad una sorta di confuso assemblearismo, che poi si traduce nel rispolverare il vecchio luogo comune — questo sì– per cui piccole avanguardie militanti si sentono investite della volontà popolare. Soprattutto arriva a sostenere che i referendum sull’acqua del 2011 sarebbero stati, in buona sostanza, una grandiosa operazione manipolativa da parte di una piccola schiera di intellettuali che avrebbero falsamente propinato al popolo che era in campo l’intenzione di privatizzare l’acqua e il servizio idrico.
A parte qualunque considerazione sul fatto che vivremmo in un’epoca in cui il “popolo bue” si lascia incantare da qualche parolaio e, ancor più, il disprezzo che trapela per un istituto, come quello referendario, che ha visto comunque pronunciarsi in modo inequivoco la maggioranza assoluta dei cittadini italiani, è troppo chiedere al nostro di andare semplicemente a rileggersi il decreto Ronchi, che venne appunto abrogato da quel pronunciamento? E’ troppo ricordargli che quel provvedimento avrebbe obbligato tutte le società di proprietà pubblica a far entrare i soggetti privati, entro la fine del 2011, nel capitale sociale delle stesse, in una misura non inferiore al 40%?
E che dare la gestione del servizio idrico a soggetti privati, consentire ad essi di realizzare profitti in quest’attività, equivale esattamente a privatizzare l’acqua?
Il fatto è che bisogna allineare la grande stampa al nuovo ciclo di privatizzazione promosso direttamente dal governo Renzi e affidato concretamente alle grandi multiutilities quotate in Borsa. E ciò, come dimostra l’esperienza concreta e quella che si realizzerà se questo disegno andrà in porto, non solo comporta le conseguenze negative dei classici processi di privatizzazione, come l’incremento delle tariffe, il calo dell’occupazione, il decremento degli investimenti, il peggioramento della qualità del servizio, ma anche quelle nuove, quando sono promosse da grandi soggetti finanziarizzati, non radicati nei territori e orientati dalla quotazione in Borsa, e cioè in particolare la perdita di qualunque ruolo decisionale degli Enti locali e della possibilità di espressione democratica dei cittadini.
Del resto, quest’impostazione, che individua nel “socialismo municipale” uno dei nodi da aggredire nel nostro paese per farlo avanzare sulla strada della modernizzazione, non a caso incontra una chiara sintonia con quanto ci spiega il neodirettore dell’Unità Erasmo De Angelis, dalle colonne del giornale, per cui il nostro sarebbe rimasto l’unico Paese modellato sull’esperienza del socialismo reale.
Infine, non si può sottacere come questa spinta ideologica mira anche ad attaccare l’idea dell’esistenza di diritti fondamentali, come quello del diritto all’acqua. Come interpretare se non in questa chiave, ad esempio, alcuni fatti di questi giorni, quello per cui il sindaco di Bologna viene indagato dalla Procura perché aveva disposto l’allacciamento all’acqua in alcuni stabili occupati in quella città o il fermo di alcuni attivisti che si sono opposti al distacco dell’erogazione dell’acqua ad uno spazio occupato a Roma per trasformarlo in centro di aggregazione del quartiere?
In ogni caso, Battista può stare tranquillo: non saranno le interpretazioni di comodo, le mistificazione della realtà, l’accondiscendenza nei confronti dei poteri forti ad arrestare un processo che affonda le sue radici, materiali e soggettive, nelle trasformazioni radicali e regressive che ci consegna non il socialismo municipale, ma il capitalismo neoliberista. Soprattutto se, come mi auguro e come esistono le condizioni per realizzarlo già nei prossimi mesi, le ragioni dei beni comuni, del lavoro, di un rinnovato Stato sociale, accomunate dall’idea dell’universalimo dei diritti della persona, sapranno incontrarsi e rendere credibile l’idea di un modello produttivo e sociale alternativo a quello che le élites dominanti, in Europa come nel nostro Paese, continuano a proporci come l’unico possibile.