gli incentivi alle imprese la stagnazione prosegue, così come il passaggio dal lavoro garantito a quello precario. Fichè restano avvolti nel modello tatcheriano non c'è salvezza. Il manifesto, 1 agosto 2015
Sostiene l’Istat che il primo semestre 2015 si è chiuso con un andamento del mercato del lavoro per nulla positivo: a giugno il tasso di disoccupazione per l’intera popolazione è tornato al 12.7% e quello giovanile raggiunge il 44.2%. Il numero di occupati continua a diminuire a giugno di 22 mila unità in un mese, dopo il calo di maggio di 74 mila unità. Diminuisce anche il tasso di inattività, spiegato dalle condizioni drammatiche in cui versano le famiglie e non dalla fiducia ritrovata (che proprio a giugno mostra un calo significativo), come invece vuole farci credere il governo.
Il calo del numero di occupati a giugno è stato trainato interamente dalla componente maschile e giovanile. Nel confronto con giugno 2014, in Italia ci sono 40 mila occupati in meno: mentre per gli uomini il numero di occupati diminuisce (-82 mila), per le donne aumenta specularmente (+42 mila unità). Rispetto allo stesso mese del 2014, il tasso di disoccupazione maschile è aumentato del 7.5% (da 11.5 a 12.3 percento), mentre quello femminile è diminuito del 3%, rimanendo comunque a un livello (13.1%) di gran lunga superiore alla media europea. Nello stesso periodo, il tasso di occupazione dei giovani tra i 14 e i 25 anni è crollato dell’8% in un anno.
Il governo che doveva risolvere — come molti altri che l’hanno preceduto — la disoccupazione, fenomeno strutturale aggravato dalla crisi, si rivela di fatto inadeguato ad affrontare il problema: l’unica politica attiva è stata quella di regalare alle imprese miliardi di sgravi sul costo del lavoro da utilizzare liberamente per accrescere la propria liquidità e profitti piuttosto che investire e creare occupazione. Il governo non è soltanto incapace di far fronte a un fenomeno drammatico, ma appare anche deleterio, data l’assenza di programmazione e i tagli al welfare. Se è presto per giudicare in modo esaustivo il JobsAct, rimane incontestabile che dall’insediamento del governo Renzi, il tasso di disoccupazione sia aumentato del 3.5% a fronte di un calo del tasso di inattività di un esiguo 0.2%.
Dopo lo Svimez, anche l’Istat guasta la festa al governo. Ventiduemila occupati in meno e cinquantacinque mila disoccupati in più a giugno, 85 mila in più dal 2014, hanno indotto ieri il presidente del Consiglio Matteo Renzi a parlare di «piccola ripartenza» dell’occupazione. A Renzi è stato suggerito di guardare i dati Istat che attestano la riduzione degli inattivi, sintomo di una maggiore partecipazione al mercato del lavoro. Una tendenza che si è strutturata nell’ultimo anno: –0,9% (-131 mila). «C’è ancora moltissimo da fare ma i dati sono interessanti perché quelli che vengono considerati inattivi, che erano sfiduciati o rassegnati, tornano a crederci - ha detto - cioè aumenta il numero di persone che ha trovato un posto di lavoro ma anche chi lo sta cercando».
A riprova della strategia del governo, tutta in difesa per giustificare dati da stagnazione pura e semplice, sono arrivati anche i pensieri del responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, il quale sostiene che la «crescita» (data allo 0,7%) produrrà effetti occupazionali in autunno, «con sei mesi di ritardo». C’è qualcosa che però non funziona nella trincea scavata dal governo sotto l’intenso cannoneggiamento della crisi: se il tasso di inattività diminuisce, dovrebbe diminuire allora anche quello della disoccupazione. Invece accade il contrario, e non da ieri. Si torna a sfiorare il record del 13% (siamo al 12,7%).
In pratica, coloro che perdono il lavoro sono di più di quelli che lo cercano e sono tornati a «mettersi in gioco» come direbbe Renzi. Chi invece ha trovato un lavoro esce dalla cassa integrazione. Lo attestano i dati: tra il 2014 e il 2015 110 mila persone si trovano in questa situazione. Taddei e il ministro del lavoro Poletti ieri lo hanno rivendicato.
Solo che c’è un grande problema: non si tratta di nuovi posti di lavoro, quelli tanto promessi, ma sono conversioni di quelli già esistenti, ma precari. Le imprese non stanno creando nuovi posti di lavoro, ma si limitano ad incassare gli sgravi fiscali elargiti dal governo. Da Palazzo Chigi si giustificano sostenendo che arriveranno «dopo», ma si sa che la teoria dei due tempi non funziona mai. Per avere un quadro più attendibile, e meno ideologico, della situazione dalle parti della maggioranza bisogna prestare ascolto ad uno degli alleati di Renzi, per di più ex ministro del lavoro e presidente della commissione lavoro del Senato: «Il governo – ha spiegato Maurizio Sacconi — deve riflettere sugli impulsi prioritari alla crescita posto che gli oltre 16 miliardi di detassazione sul lavoro hanno sortito effetti modesti. Come insegna la ripresa spagnola, non basta la domanda estera se non si congiunge con la rianimazione di quella interna».
Per Sacconi tale «rianimazione» avverrà con il taglio delle tasse promesse da Renzi sugli immobili, per pagare i quali il governo taglierà la sanità pubblica. Un pasticcio, prodotto purissimo dell’austerità, da cui non sarà facile uscire per l’esecutivo. Da questi discorsi, fatti arrampicandosi sugli specchi, ieri è rimasto in un cono d’ombra il continente della disoccupazione giovanile: al 44,2%. Dopo il fallimento del programma di Garanzia Giovani, per il governo è ormai un tabù, tanto è vero che non ieri non ne ha parlato. In questo caso non ci sono «fluttuazioni dovute alla ripresa» come sostiene Poletti per la disoccupazione generale. La tendenza è univoca: i giovani, e le donne, under 34 sono ormai le vittime accertate della crisi. Alfredo D’Attorre, deputato della sinistra Pd, coglie il punto: «Mai è stata così alta – sostiene – si scrive dal 77 solo perché allora cominciano le serie statistiche omogenee, in realtà allora la disoccupazione giovanile era al 21,7%, oggi è al 44,2%». I giovani sono perduti lungo la strada sognata della «crescita».
«L’Istat conferma come l’occupazione giovanile sia instabile e di breve durata – ha sostenuto Serena Sorrentino (Cgil) – Il Jobs Act non dà risposte, ma il governo è ancora in tempo per modificarne radicalmente i decreti. La smetta di finanziare a pioggia le imprese e finanzi un piano per il lavoro». L’impotenza sui giovani e la «mal riuscita Garanzia Giovani» spinge Guglielmo Loy (Uil) a parlare di fallimento delle politiche del lavoro. «Non è sufficiente un incentivo per aumentare l’occupazione» ha aggiunto Gigi Petteni della Uil. Da parte delle opposizioni duplice è la richiesta: «reddito di cittadinanza e interventi per il bene pubblico» (Giorgio Airaudo, Sel) e «abbandono della leva fiscale e investimenti pubblici che trainano quelli privati. Altrimenti il Titanic di Renzi e Poletti punterà dritto verso l’iceberg» (Movimento 5 Stelle).
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