La Repubblica, 9 agosto 2015.
LA LETTURA dei giornali in questo inizio d’agosto è piena di fatti drammatici o comici, talvolta comici per la loro drammaticità, soprattutto quando toccano non più la cronaca ma la politica. «Hanno distrutto la Rai», ha detto Walter Veltroni dopo le nomine fatte dal governo e dai partiti. «Mi viene da ridere pensando alla Rai», ha detto Renzo Arbore che cinquant’anni fa la rinnovò da capo a fondo. A leggere queste cose ti viene da pensare.
Ma ancora di più il turbamento aumenta su temi che riguardano la struttura di fondo del paese: il Mezzogiorno, l’occupazione, le tasse. Tre ferite aperte e purulente che concorrono alla mancata crescita del paese, antiche quasi come l’unità d’Italia. La nostra storia nazionale ha avuto anche aspetti positivi, altri pessimi, ma Mezzogiorno, occupazione e fisco sono state tre zavorre permanenti che hanno ostacolato il nostro cammino verso la modernità facendo aumentare la corruzione, le mafie, la tendenza verso regimi autocratici e addirittura dittatoriali.
Cristo si è fermato ad Eboli? Purtroppo no, se con la parola Cristo intendiamo il bene pubblico; si è fermato molto prima, a Cuneo, come disse alcuni anni fa il sindaco di quella città, oppure a Verona, a Bergamo, a Bologna, ma non più oltre. E adesso stiamo attraversando un guado assai rischioso. L’ha scritto Roberto Saviano su questo giornale a proposito di mafie e di corruzione, l’ha detto Ezio Mauro valutando la fragilità della nostra democrazia, l’hanno raccontato Michele Ainis e Angelo Panebianco sul Corriere della Sera: siamo ad una svolta, ad un passaggio cruciale.
Ed è forse una delle rare occasioni che la maggioranza dei cittadini ne è consapevole, sia pure da posizioni diverse ed anche opposte.
Mi sono spesso domandato — fuor di metafora — perché lo fa e me lo chiedo ancora una volta dopo aver letto la lettera da lui inviata qualche giorno fa al Corriere della sera. Il tema — di capitale importanza — è la legge costituzionale di riforma del Senato che arriverà in terza lettura ai primi di settembre a palazzo Madama. Sarà, così sembra, la battaglia decisiva che vede quasi tutte le opposizioni ed anche i dissidenti del partito democratico contrari, con un Berlusconi in posizione di attesa, decisiva ai fini del risultato.
La tesi di Napolitano è radicale: la legge deve essere approvata così com’è, nel testo già approvato da Camera e Senato nelle prime due letture: il Senato trasformato in una Autorità di controllo e di rappresentanza territoriale senza più alcun potere legislativo nazionale, ridotto a cento componenti. Questo suggerisce il Presidente emerito e per lui non è certo un’improvvisazione: è su questa posizione da molti anni ed ora gli preme più che mai vederla portata a buon fine da Renzi che di un appoggio così autorevole ha certo molto bisogno.
Personalmente ho grande stima e amicizia per Napolitano. Ma su questo tema sono in totale disaccordo. L’ho già scritto in numerose occasioni perché si tratta di un tema che domina da mesi la politica italiana insieme alla riforma elettorale che vi è strettamente connessa. Purtroppo debbo ripetermi perché la lettera di Napolitano ripropone l’argomento e riapre il dibattito.
È senz’altro opportuno che il Senato sia privato del potere di votare la fiducia al governo, ma tutti gli altri poteri legislativi debbono restare integri. La nostra è una Repubblica parlamentare e la linea politica è indicata dal Parlamento mentre al potere esecutivo spetta — come dice il nome — il mandato di tradurre in atti esecutivi coerenti con la linea indicata dal Parlamento, che rappresenta il popolo sovrano. In Parlamento si approvano le leggi che attuano la linea indicata dalla maggioranza che il Parlamento esprime; sicché il sistema elettorale deve essere analogo in entrambe le Camere. Analogo ma non identico, a cominciare dall’età dei componenti e da altre accettabili difformità.
Naturalmente è anche possibile che il Senato scompaia e si attui un sistema monocamerale; in gran parte d’Europa è così. In tal caso però le elezioni alla Camera debbono essere totalmente libere e rappresentare fedelmente il popolo sovrano. Il sistema monocamerale previsto dall’“Italicum” di Renzi è in larga misura un monocamerale di “nominati” dal governo in carica; la conseguenza è evidente: il potere legislativo è declassato e subordinato all’esecutivo, il presidente del Consiglio diventa così il personaggio che “comanda da solo” esattamente il contrario della democrazia parlamentare.
Mi pare molto singolare che Napolitano non veda questo risvolto della abolizione di fatto del Senato. Un monocamerale in gran parte “nominato” dall’esecutivo ci avvia inevitabilmente all’autocrazia. E questo che si vuole?
Non sono in grado ovviamente di conoscere in proposito il parere del presidente Mattarella, ma supponiamo per pura ipotesi che egli ravvisi un’illegalità in questa soluzione e rinvii la legge costituzionale alle Camere. La posizione di Napolitano sarebbe in quel caso estremamente imbarazzante e sarebbe come se il papa emerito Benedetto XVI facesse pubblicamente affermazioni teologiche diverse da quelle di papa Francesco. Vi sembra possibile una situazione simile? *** Naturalmente la dissidenza del Pd si rende ben conto che la posizione critica che ha deciso di assumere di fronte alla legge del governo può portare ad uno strappo e addirittura ad una scissione del partito. Perché lo fa? Perché non si limita ad astenersi dal voto o a non presentare emendamenti profondamente diversi dal testo della legge in discussione? Se il motivo fosse soltanto quello connesso alla legge sul Senato, la dissidenza del Pd potrebbe ancora una volta chiuder gli occhi ed accettare l’amaro boccone che Renzi ha deciso di farle trangugiare, ma in realtà ci sono due altri motivi: la vocazione autocratica che si esprime attraverso le due leggi elettorale e costituzionale e lo spostamento in corso del Pd da partito di centrosinistra a partito di centro. Non a caso Renzi ha come punto di riferimento storico Tony Blair, che trasformò il partito laburista inglese e proseguì portandola a compimento la politica di Margaret Thatcher.
Quello spostamento consentì a Blair di governare per due legislature di seguito e ancora ne mena vanto sostenendo che i voti in una società moderna si prendono al centro e non a sinistra.
Sarà pur vero, ma quella che allora si chiamava Inghilterra non sembra abbia fatto passi da gigante dopo i lunghi anni di governo di Tony Blair; è rimasta un ex impero coloniale senza più colonie, ai margini dell’Europa e ormai diviso in una federazione dove l’Inghilterra convive con le sovranità della Scozia, del Galles e dell’Irlanda. Tony Blair ha un bel passato personale ma storicamente è stato una foglia al vento e il suo Paese conta ben poco nell’Europa di oggi; nella società globale, conta niente del tutto. Ha scritto a questo proposito Angelo Panebianco: «Il partito della Nazione ha bisogno di sostituire il mancato radicamento sociale con la crescita di potere dell’esecutivo. Per questo la riforma del Senato è oggi così importante e per questo la minoranza intende fare di tutto per batterlo e garantire la propria sopravvivenza. Sa che Renzi è uno che non fa prigionieri».
Tutto comprensibile. Ma che fine farà la democrazia parlamentare? Che fine farà la sinistra? E soprattutto che fine farà un Paese che sembra ricordarsi dell’Europa solo per ottenere libertà di “deficit spending”? Il “deficit spending” è importante, ma gli Stati Uniti d’Europa lo sono ancora di più. Quel tema però interessa assai poco. Gli immigrati interessano molto di più, ma sul quel tema non è stato compiuto nessun passo avanti e l’altro ieri sono morte in mare altre centinaia di persone. Sono questi i risultati?