Il manifesto, 13 settembre 2015
Nel documento diffuso urbi et orbi da Varoufakis, Lafontaine, Melenchon e Fassina si legge che: «Nessun paese europeo può operare la propria liberazione in modo isolato». Appunto. Peccato che il documento non sia molto coerente con questo assunto. Esso vede la luce a pochi giorni dalle nuove elezioni greche e non si può davvero dire che sia una mano d’aiuto a Syriza e a Tsipras. Peraltro se questi ultimi dovessero perdere, non si comprende quale possa essere la maggioranza in grado di portare avanti il piano B sostenuto dagli autori del documento. Per attuarlo non bastano forze minoritarie.
Il confronto fra Tsipras e la Ue è avvenuto precisamente nell’isolamento internazionale. Un paese contro 18. Né i movimenti sono riusciti ad esprimere una solidarietà così forte da incidere sui rapporti di forza. Né i grandi paesi esterni alla Ue, ognuno con i propri diversi motivi, non gli Usa, né la Russia, tantomeno la Cina avevano interesse e possibilità di sostenere la Grecia in uno spericolato sganciamento dall’euro.
In questo quadro si è giunti non a un accordo, ma alla consumazione di un ricatto. Tspiras lo ha detto al suo popolo e al parlamento in modo spietato. L’introduzione di Syriza al programma di governo del 2015, che si propone di indebolire se non neutralizzare le conseguenze più regressive del nuovo Memorandum, affonda ancora il coltello nella piaga. Dopo un impietoso esame delle condizioni nelle quali la Grecia a luglio si trovava si afferma: «Dovevamo scegliere tra una ritirata tattica, in maniera da preservare la speranza di vincere una battaglia politica asimmetrica, oppure imporre alla sinistra un fallimento storico che avrebbe trasformato il paese in un deserto sociale. Ci siamo presi la nostra parte di responsabilità e abbiamo scelto la prima opzione».
Scegliere l’altra avrebbe significato cadere nelle braccia della Grexit di Schauble. Le conseguenze di un’uscita dall’euro sono oggetto di discussione — perché non ci sono precedenti né è prevista dai trattati -, ma mi sembra difficile non assistere in quel caso a una ulteriore fuga dei capitali, a pesanti manovre speculative, a un balzo dell’inflazione pure in presenza di alti tassi di disoccupazione, quindi a una diminuzione drastica e brusca del valore reale di salari e pensioni già al lumicino. Per impedire questo, disse Varoufakis a New Statesman, si era pensato a un piano B, con la necessaria riservatezza, salvo verificare che mancavano forze e mezzi per garantirne il risultato.
Cambierebbe in meglio il quadro se al posto di una Conferenza europea sul debito non solo greco, che è quanto ha sempre voluto Syiriza e che in parte ha ottenuto al termine della mortificante trattativa con i prossimi appuntamenti autunnali — ai quali giustamente i greci chiedono la presenza del parlamento europeo in quanto tale, unica struttura elettiva — si realizzasse una conferenza per il piano B, proposta dagli estensori del documento? Non credo proprio, poiché la pubblicità stessa dell’atto — al di là delle buone intenzioni e prima ancora degli esiti del medesimo — sposterebbe l’attenzione dal piano A — ovvero battersi dentro l’Eurozona — al piano B, cioè alla uscita dall’euro.
In modo assai discutibile, i fautori del Piano B paragonano l’azione della Ue nei confronti della Grecia e dei paesi mediterranei alla «sovranità limitata» praticata da Breznev con i carri armati a Praga. Ma davvero la fuoriuscita dall’euro sarebbe la liberazione dalla gabbia? Vi sono paesi che hanno la loro moneta, come la Polonia, eppure non sono che un’articolazione del sistema produttivo tedesco. D’altro canto alla gabbia dell’euro si sostituirebbe quella non certo più tenera dei mercati finanziari internazionali.
Per una sinistra la disputa euro-non euro non dovrebbe avere di per sé un peso così dirimente. Dovrebbero esserlo molto di più le politiche produttive. Certo, l’euro è stato costruito in un’area monetaria non ottimale che favorisce la potenza esortativa della Germania. Sarebbe meglio — ci si potrebbe arrivare senza disfare l’Europa, rafforzando l’unità di paesi e di sinistre (auguri Corbyn!) — avere una moneta comune in luogo di una moneta unica. Un’attualizzazione del Bancor pensato da Keynes. La moneta è importante in un sistema capitalistico di produzione, ma non è tutto. La forza di una moneta non è in sé, ma nel sistema economico e nel paese che rappresenta. Ce lo insegna la storia del rapporto fra Usa e Dollaro, ora si potrebbe dire fra la Cina e Renminbi.
In una transizione egemonica mondiale fra Ovest e Est, ove le guerre sono all’ordine del giorno e una deflagrazione mondiale è dietro l’angolo, il ruolo di un’Europa federale e democratica, dotata di una propria forza economica, quindi anche di una moneta, è decisiva. Se si trasformasse in un protettorato tedesco più ristretto, come vogliono i vari Schauble, sarebbe una sciagura non solo per l’economia ma per i già traballanti rapporti geopolitici mondiali.