Intervista a Thomas Schmid di Andrea Tarquini
«È un colpo durissimo a un simbolo della Germania, e senza giudizi morali mi rammenta come è nata Volkswagen, azienda dal passato non del tutto incolpevole: nacque come idea del Reich, “comunità di lavoro”». Thomas Schmid, ex direttore della “Welt” ed editorialista di punta dei media tedeschi, non nasconde il suo allarmato sconcerto.
Che peso ha lo scandalo per l’immagine del sistema Germania?
«Ha un peso devastante. Crea problemi anche alla costruzione dell’Europa politica. Per amara ironia, mi viene in mente che poco lontano da Wolfsburg nacque Hoffmann von Fallersleben, autore dei versi del nostro inno nazionale. Forse nessun’altra azienda come la Volkswagen è stata il simbolo della rinascita postbellica dell’industria tedesca: un’industria attendibile, seria, sinonimo di qualità e di concertazione, in una giovane ma forte democrazia. Adesso riparare il danno sarà difficilissimo. Nessuno poteva aspettarselo, ma da un’azienda e da un sistema-Paese privo di strutture criminali è nato un sofisticato sistema di truffa organizzata. Anzi, proprio dall’azienda simbolo della tecnica attendibile e dell’uso responsabile, ecologico, di ogni tecnologia. Scelta tanto più folle in quanto anche prima dello scandalo, Vw aveva difficoltà sul mercato Usa».
E simbolo anche della concertazione: c’è del marcio anche là?
«La concertazione è un cardine del sistema tedesco, ma in passato recente, proprio in Volkswagen si è visto che può anche diventare un po’ complicità, fino a viaggi di piacere di ogni tipo in Sudamerica pagati dall’azienda. La concertazione è valore costitutivo giusto nello spirito della nostra Costituzione. Diverso se riprende l’idea di comunità nazionale e di lavoro che fu propria del nazionalsocialismo ».
La macchia nera del caso Volkswagen è contagiosa per tutto il sistema Germania, anche per le altre grandi aziende global player tedesche?
«Al momento non ancora, o non tanto. Però deve essere fatta piena luce al più presto. È agghiacciante per noi tedeschi doversi domandare perché una tale energia criminale sia nata in un’azienda simbolo del nostro Paese».
Volkswagen è azienda semipubblica: che conseguenze?
«Serie. Appunto, lo scandalo non ha colpito i big privati come Bmw o Mercedes. Il potere politico è presente con la sua golden share, deve sentirsi corresponsabile. Anche del fatto che l’obiettivo di divenire numero uno mondiale sorpassando Gm e Toyota, iperambizioso anche prima, oggi sembra drammaticamente più lontano» . (a.t.)
RABBIA DEGLI OPERAI E FAIDA TRA I MANAGER.
ADDIO ALLA FABBRICA-FELIX
di Andrea Tarquini
Occhi bassi, musi grigi, mugugni che escono appena da bocche chiuse. Nessun capannello di tute blu che scherzi sul calcio o sugli ultimi amori, niente chiacchierate sulle prossime vacanze. Non è un giorno come un altro, qui al cancello numero 17 della gigantesca fabbrica in mattoni rossi che domina Wolfsburg, e con capannoni enormi tipo Detroit un tempo, palazzi uffici e ciminiere, sembra una Mirafiori infinita che sotto le basse nuvole grigie della fredda pianura di Bassa Sassonia si perde oltre l’orizzonte. E’triste, fa male come un trauma collettivo, il day after degli operai Volkswagen, fino a ieri i ‘Cipputi’ più felici del mondo. Ma se loro piangono, il padrone non ride: ai piani alti del cubo monolito a sedici piani col cerchio, la V e la W che lo sormontano, è lotta a coltello per il potere. Tra poche ore potremmo sapere chi è il vincitore, manovre dietro le quinte si susseguono, e il potere politico è qualcosa di più che non solo spettatore interessato. Il padrone è anche lui: la Bassa Sassonia, con la sua golden share, ha sempre bloccato ogni scalata ostile al colosso ora ferito dalla sua colpa.
Wolfsburg. Il giorno dopo: qui nella ‘Golf city’, l’incredibile scandalo della truffa col software che falsava i dati d’inquinamento, tentata con energia criminale e ingenuità pazzesche contro le iperattente authorities americane, e su undici milioni di vetture, «ha messo sotto shock una città intera»,, mi dice Herr Heinz, il collega della Wolfsburger Allgemeine che narra ogni giorno le cronache della fabbrica attorno a cui nacque una città moderna da brumosi pascoli e campagne. Passeggiamo insieme davanti al cancello numero 17, ascoltiamo operai e operaie sotto shock. Teste piegate in giù, qualcuno ha la voce roca e gli occhi lucidi. «Sedici miliardi di multa », mormora Ursula, da anni alla catena di montaggio, madre di famiglia, «temo che quei troppi costi schiacceranno la Volkswagen, la spingeranno a risparmiare tagliando posti di lavoro e rinunciando a nuovi modelli, quindi al nostro futuro».
Clima pesante, lo cogli in ogni angolo dell’unica città operaia d’Europa che la ricchezza del gigante globale e la forza, difesa dall’IgMetall, dei suoi dipendenti, ha reso negli ultimi dieci anni centro abitato borghese: dal centro culturale dove di solito i giovani universitari del posto si contendono i biglietti di concerti rock al museo d’arte con esposizioni itineranti di livello mondiale, dalle strade pedonali tutte boutiques, vinerie italiane e agenzie di viaggio alla sala concerti che sembra una Filarmonica di Berlino in miniatura. «Vedimi dice Ingo, caporeparto alle presse carrozzeria - da dieci anni almeno la città è decollata con i successi di Volkswagen, per questo adesso abbiamo paura, per noi e per i nostri figli».
Breaking news seguite dagli operai più giovani sugli smartphones accesi appena usciti dal “diciassette”: l’ad Winterkorn si scusa ma vuole restare… «Miliardi e miliardi persi in Borsa». “Ma che diavolo», sbotta il venticinquenne Wolfgang, tuta blu da pochi anni dopo lunghi e duri corsi di formazione, «noi operai di Wolfsburg lavoriamo bene, siamo simbolo di qualità attendibile, siamo gente seria, capisci come avendoci fatto montare quei trucchi elettronici a nostra insaputa hanno mostrato disprezzo per noi? Ci sentiamo malissimo, beffati e imbrogliati come chi ha comprato quelle auto col trucco nascosto dentro. Mio nonno montava i Maggiolini, mio padre le prime Golf, io i modelli attuali…quel rapporto di fiducia tra operai e l’azienda, tramandato da generazioni, ora è rotto. Winterkorn deve andarsene, ma del futuro non ho più certezza».
Clima cupo, nella ‘Golf City’ a un’ora d’alta velocità da Berlino che da anni era una piacevole, vivace cittadina allegra col volto e l’animo rivolto ottimista al futuro. E l’attesa della riunione, tra poche ore, del comitato ristretto del Consiglio di sorveglianza, getta i settantamila abitanti o giù di lì, glie lo vedi in volto a tutti, in una tensione al calor bianco, sull’orlo d’una crisi di nervi loro abituati alla tranquilla società di consensi e compromessi. Ai chioschi, alla stazione, negli shopping center, i titoli d’apertura di prima dei grandi quotidiani del mattino – “La Volkswagen vacilla”(Die Welt), “Tonfo in Borsa Vw, pericolo europeo” (Faz), esasperano la Angst, l’angoscia collettiva.
Tra poche ore, la resa dei conti. Un nuovo scontro al vertice, dopo quello che due mesi fa Winterkorn vinse contro Ferdinand Piech, il vecchio patriarca. «Ogni esito è aperto, ma l’attuale ad di Porsche, Matthias Mueller, appare favorito», mi assicura il collega del giornale locale. Il potente capo del Consiglio di fabbrica, Bernd Osterloh, in una lettera aperta agli operai, ha chiesto «chiarezza totale, e che i responsabili paghino». E nell’attesa ansiosa, molti ripensano in un flash back agli ultimi mesi: forse Piech aveva aperto lo scontro con Winterkorn, ritirandogli la fiducia, perché sapeva del trucco criminale elettronico montato sulle auto? E perché mai, mi fa notare Andreas Schweiger delle Wolfsburger Nachrichten, al suo ultimo discorso al salone dell’auto di Francoforte Winterkorn, oratore piatto ma di solito sempre sicuro di sé, quasi balbettava e biascicava o storpiava parole? Forse un timore lo rendeva nervoso? Così la bella Wolfsburg va a dormire, con tanti interrogativi tremendi, in uno shock che unisce tutti, e sentendosi improvvisamente derubata d’un futuro di speranza.