Il Fatto Quotidiano, 2-3 novembre 2015
Alfredo Reichlin
IL PD HA SCONFITTO E TRADITO LA SINISTRA
Il suo buongiorno è una riflessione tra sé e sé: “Non do mai interviste. È una cosa assurda. Assurda”. Cosa? “L’aver accettato questa chiacchierata”. Sì, e con il Fatto quotidiano, un giornale non molto amato dall’establishment del Partito democratico. “(Silenzio) Ultimamente state iniziando a diventarmi simpatici. E uno non può dire sempre di no”.
Alfredo Reichlin ha novant’anni, testa lucida, lucidissima, è una delle grandi memorie storiche del nostro paese, è uno dei pochi viventi ad aver conosciuto Palmiro Togliatti di persona, non sui libri del liceo; negli anni Sessanta ha diretto l’Unità, quindi Parlamentare, così vicino a Enrico Berlinguer, quanto distante dai miglioristi di Giorgio Napolitano. Al funerale di Pietro Ingrao è salito sul palco, ha schiaffeggiato la politica attuale con il ministro Maria Elena Boschi e il premier Matteo Renzi atterriti e al suo fianco, ha commosso i presenti con alcune riflessioni su com’era la politica, la sinistra, ideali, sogni, certezze. E la realtà di oggi. “Premessa: non ho né rimpianti né nostalgie, il passato è passato, resta la differente concezione della politica, dove non si badava soltanto al qui e ora e a questioni di governo”.
Palmiro Togliatti parlava di strategia e tattica.
«La politica non è solo immanenza, è anche formazione di una soggettività, è visione del futuro; la politica deve leggere il presente con in testa un disegno per andare oltre l’interesse immediato».
Lei ha detto: “Dietro a Renzi c’è un vuoto politico, non c’è alcuna cultura politica, non c’è un disegno del futuro”.
«Questo è il punto. Attenzione: Renzi è una personalità straordinaria, ma non è un fondatore di partito, non è il fondatore di una cultura di partito».
E qual è la sua idea di partito?
«È una parte di società che si organizza in nome di una visione della realtà e per consentire a pezzi del Paese di entrare in una dimensione statale. Il limite di Renzi è questo».
La visione odierna muta nell’arco di pochi mesi, come con la vicenda dei 3mila euro.
«Eh, sì. Però la politica deve anche essere gestione dell’esistente e soluzione dei problemi, ma la questione è che oggi la politica non conta più nulla».
E chi comanda?
«Il mio slogan sull’oggi è: i mercati governano, i tecnici amministrano, i politici vanno in televisione ad assolvere la funzione della gestione mediata e del simbolico».
Solo apparenza«Forse esagero, ma le grandi decisioni non vengono più prese dalla politica, oramai messa in mora dall’economia».
Da quando?
«Dalla grande svolta promossa da Reagan e dalla Thatcher, quando la finanza
da infrastruttura dell’economia è diventata struttura a sé, finalizzata a produrre denaro e ai capitali è stata data la totale libertà di circolazione. Vede, a suo tempo Gianni Agnelli era una potenza, ma Luciano Lama (ex segretario della Cgil dal 1970 al 1986) aveva un esercito alle spalle; tu sei il grande banchiere ma lo Stato può prendere delle decisioni che ti condizionano».
Ma perché questa rottura degli equilibri?
«L’economia si è mondializzata, la politica no, restano gli Stati nazione».
Noi siamo arrivati ad avere Monti presidente del Consiglio, e un governo di banchieri.
«È evidente, ma le ripeto: le vere grandi decisioni sono altrove e la politica ha cessato di esprimere la funzione precedente, quella di manifestare un grande potere, attraverso la formazione di classi dirigenti all’altezza.
Il Pci era radicato sul territorio come pochi, una forma piramidale distrutta negli ultimi dieci anni.
«È tutto lì, e l’ho detto anche alla commemorazione di Ingrao. Oggi il Parlamento non conta nulla, si governa solo con i decreti legge, il resto è chiasso».
Con Berlusconi si è rotto un argine...
«Lui è stato il segnale che oramai vinceva questo indirizzo, ma qualcosa è iniziato anche con la fine del compromesso storico, ma nessuno ricorda bene su quali basi era nato... Nasceva da grandi preoccupazioni, tra doppio Stato, terrorismo, trame, crisi economica, inflazione: era un periodo di grandissime difficoltà, quindi alcuni, in primis Berlinguer, avevano avvertito la necessità di un accordo simile a quello del secondo dopoguerra tra due grandi forze popolari.
Perché la storia di cui lei è rappresentante e protagonista a un certo punto si è interrotta?
«Semplice: siamo stati sconfitti. La sinistra ha inventato i sindacati, i partiti di massa, i diritti sociali, lo Stato sociale. Lo ha potuto fare perché questi poteri li ha esercitati, e poteva dire alla sua base ‘io ti conduco e ti apro un orizzonte’. Se lo Stato viene meno come soggetto in grado di gestire i poteri reali, va in crisi anche il ruolo della sinistra».
Renzi attacca continua mente i sindacati.
«Ovvio, per lui sono solo un intralcio. Mentre Giolitti rivendicava la trattativa con i rappresentati dei lavoratori».
Qualcuno ha azzardato il paragone tra Craxi e Renzi.
«Craxi ha inaugurato molto di questa fase, ha distrutto una grande forza come il Psi; il cerchio magico era suo, un cerchio che ha violato ogni regola».
Lei ha contribuito alla carta dei valori del Pd: quella carta è stata tradita?
«Penso di sì, mentre alcuni di noi, anche alcuni democristiani, credevano nella formazione di un partito, idee, progetti, in realtà l’unione è nata con la suddivisione delle sfere d’influenza: tu sei presidente, tu segretario».
Le due casse, i due patrimoni, quello dei Ds e quello della Margherita, non si sono mai uniti.
«Esatto, sono stati spezzoni di ceto politico, ognuno con il proprio rapporto con le masse».
Lei a fine anni Ottanta è stato candidato a sindaco di Roma (vinse il socialista Carraro). Che idea si è fatto di questa situazione?
«È gravissimo quello che sta avvenendo, trovo sbagliato che il presidente del Consiglio abbia fatto questa scelta di dire ‘arrangiatevi’, di prendere le distanze. Dimostra di non aver ben capito cos’è Roma: la Capitale non è una città che puoi affidare a Orfini, e dire occupatevene voi. Roma è una delle realtà più importanti al mondo. Si sta camminando dove ha camminato Giulio Cesare, si parla dove parlava Cicerone, dopo l’unità d’Italia Quintino Sella si poneva un dilemma: come si va a Roma e con quale idea? Chi governa la Capitale deve avere delle idee, deve conoscere questa realtà.
Ci vogliono le primarie?
«Credo di no, deve essere il partito in quanto tale e il suo capo a indicare un candidato. Le primarie saranno un gioco tra personaggi minori, perché i pochi grandi non vogliono partecipare».
Ha qualche nome da proporre?
«No, ma tenga conto di una aspetto: il sindaco di Roma conta più di un ministro.
Si era reso conto della situazione drammatica del Pd romano?
«Da troppi anni sono fuori dalla politica romana.