Il manifesto, 14 giugno 2015
Qualche giorno fa sul Corriere della sera è apparso un articolo che si interrogava sulle radici della corruzione dilagante in Italia. Giovanni Belardelli invitava a considerare le finalità perseguite da uomini politici «spinti in via esclusiva da miserabili aspirazioni di arricchimento personale» e puntava il dito sulla scadente qualità di una classe dirigente «priva di ogni aspirazione od obiettivo di natura politica, come non era invece nella Prima Repubblica». L’ascesa di una razza padrona del tutto indifferente alle sorti della cosa pubblica era indicata tra le cause principali del verminaio scoperchiato ogni giorno dalle cronache politico-giudiziarie.
In questo argomento c’è indubbiamente del vero, ma è probabile che esso vada sviluppato sino a coinvolgere gli stessi corpi sociali. Forse il tramonto della politica aiuta a comprendere un fenomeno tra i più allarmanti: che il paese convive pacificamente con quella cloaca a cielo aperto che in molti territori (a cominciare dalla capitale) e in tanti gangli dello Stato centrale ha di fatto sostituito le istituzioni della politica e dell’amministrazione pubblica. Certo non tutti appaiono cinicamente indifferenti. Ma anche la reazione antipolitica converge nella passività, tradendo un radicale disincanto. La politica appare ai più una «cosa sporca» con la quale il paese è costretto a convivere. Se pensiamo al trauma che fu, venti e rotti anni fa, la scoperta di Tangentopoli, non c’è paragone. Non solo la piaga della corruzione è oggi ben più vasta e infetta. Non c’è neppure l’ombra dell’indignazione che allora scosse l’opinione pubblica.
Il fatto è che se non c’è più la politica – il confronto tra culture, modelli di società, progetti, concezioni diverse dei valori e dei fini della convivenza civile – subentra il naturalismo. Ci si identifica immediatamente con l’esistente senza nemmeno immaginare la possibilità di un’alternativa. Magari si mugugna e si protesta, ciascuno nel suo piccolo. Ma intanto, forse inconsapevolmente, ci si rassegna, perché così va il mondo. Il tramonto della politica è la morte della critica, o nel silenzio del risentimento o nelle grida della deprecazione fine a se stessa.
Tutto ciò aiuta a spiegare anche un’altra vicenda sconvolgente all’ordine del giorno: la risposta vergognosa, inaudita delle leadership europee (a cominciare dai principali paesi dell’Unione) alla drammatica emergenza umanitaria costituita dall’arrivo in massa dei profughi dall’Africa. Che i Cameron, i Merkel, gli Hollande e i Rajoy, per non parlare dei commissari europei e degli altri capi di Stato e di governo, non siano dei giganti, non c’è dubbio. Ma bisogna riconoscere che essi non millantano affermando che, ove decidessero di coinvolgere i propri paesi in questa tragedia, rischierebbero di perdere buona parte del consenso di cui ancora godono, e farebbero per di più il gioco degli imprenditori politici del razzismo, del nazionalismo e della xenofobia.
Piaccia o meno, si tratta di un timore fondato e ciò dà la misura della gravità del problema con il quale si tratta di fare i conti. La fuga in massa dalla guerra, dal terrore, dalla miseria e dalla fame non si arresterà. L’Europa rimarrà a lungo per decine di milioni di persone una meta irrinunciabile. Il diritto di chi chiede asilo non è negoziabile, ma l’ipotesi di un’immigrazione illimitata non è realistica e il rischio di una reazione di stampo razzista e fascistoide in gran parte dei paesi europei appare concreto. Si può discutere fin che si vuole sulle responsabilità di questo stato di cose. Chiamare in causa chi nell’ultimo quarto di secolo ha contribuito a scatenare una guerra dopo l’altra tra Corno d’Africa e Asia centrale, passando per l’Iraq, i Balcani, la Libia e la Siria. Denunciare l’insipienza delle élite politiche europee che hanno sempre sottovalutato il problema, illudendosi di governarlo con misure di tamponamento. Resta che oggi nessuno sa come risolverlo senza violare i diritti dei migranti e al tempo stesso evitando in Europa terremoti sociali e politici che potrebbero resuscitare gli spettri più inquietanti del nostro passato.
L’Europa si è illusa di essersi liberata dal fardello della propria storia dopo la Seconda guerra mondiale. In realtà le ceneri dalle quali è rinata non contenevano soltanto la coscienza democratica e l’universalismo, l’illuminismo e la cultura dei diritti individuali e sociali, ma anche il colonialismo, il razzismo e la xenofobia, il nazionalismo e il comunitarismo. Nella tensione tra queste componenti dell’identità europea la rivoluzione neoliberale ha influito in modo decisivo. Non governati, gli spiriti animali hanno imposto un fine indiscutibile nell’impiego delle enormi risorse materiali e umane disponibili nel Vecchio continente. Hanno decretato il ridursi della politica ad amministrazione, asservendola alla sovranità del capitale privato. Come mostra da ultimo la guerra della troika contro la Grecia, hanno criminalizzato e messo al bando il confronto critico sui valori, i criteri di giudizio e i modelli sociali. Ma l’avvento della postdemocrazia tecnocratica ha comportato un prezzo elevatissimo in termini di consapevolezza e di responsabilità – di qualità etica – delle popolazioni.
Con la morte della discussione politica è morta per asfissia anche la mente collettiva, come soggetto critico. Le società europee ristagnano ormai da decenni in una morta gora e nei corpi sociali, terrorizzati dalla crisi e consegnati alla ripetizione di un eterno presente, dilagano le ansie e il rancore, e ferve una ricerca mal orientata di sicurezza. Ci si rinchiude ciascuno nel proprio micromondo privato. Il fuori inquieta, l’importante è non esserne sfiorati. A chi comanda – non importa se incapace o corrotto – non si chiede che di essere lasciati in pace. Ma così non solo la corruzione straripa, non solo l’umana pietà dilegua. Rischia di tornare anche la rimossa fascinazione di un’Europa fatta di caste e gerarchie e di comunità chiuse agli stranieri e ai diversi.