Il manifesto, 9 dicembre 2015
Difficile da credere, ma è così. Per ora ha riguardato un numero ristretto di profughi ai quali è stata negata la richiesta di asilo: in base alla nazionalità o al paese di provenienza, considerato non in guerra; o anche senza aver nemmeno accertato questo dato. È il risvolto locale della decisione di Bruxelles di distinguere tra profughi di guerra e migranti economici: i primi meritevoli di protezione, i secondi da respingere.
Una selezione da affidare agli Hot spot di Italia e Grecia, che però non sono ancora in funzione e che rischiano di trasformare entrambi i paesi in “depositi” incontrollati dei profughi che gli altri Stati non vogliono. Non ci sono soldi per pagare i voli di ritorno, né accordi con i paesi in cui rimpatriare i migranti economici, perché è silenziosamente fallito il vertice di La Valletta, il cui obiettivo era lo scambio di un miliardo e otto di aiuti – soprattutto per organizzare campi in cui internare profughi in fuga o rimpatriati – con la disponibilità dei paesi africani a bloccare quei flussi per conto dell’Europa. Per questo si ricorre ai decreti di espulsione differita.
Quanto questa misura sia non solo cinica e criminale, ma anche miope e stupida, tanto da mettere in pericolo sicurezza e incolumità dei cittadini italiani, soltanto il silenzio complice dei media riesce a nasconderlo.
Con essa l’Unione europea conta di sbarazzarsi, senza sapere come, di almeno la metà dei profughi che hanno raggiunto il suo territorio quest’anno (più o meno un milione; quanti i migranti richiamati ogni anno dall’Europa prima della crisi del 2008 e delle politiche di austerity; e meno di un terzo del necessario per mantenere in equilibrio il saldo demografico dell’Unione, in caduta verticale, e la sua vacillante economia).
Ma ciò che non è andato in porto con i paesi africani sembra invece riuscito con la Turchia: in cambio di tre miliardi – tutti ancora da stanziare, in gran parte a valere sui bilanci di renitenti Stati membri — Erdogan si impegna a trattenere in Turchia (o in un’enclave da ricavare manu militari in territorio siriano) due milioni e mezzo di profughi, in gran parte siriani, iracheni e afghani (ma molti anche subsahariani, senza contare quelli nuovi, che le guerre continueranno a creare).
Questo accordo — fortemente voluto dalla Merkel per bilanciare l’impopolarità creatale, non tanto tra i cittadini tedeschi, quanto in seno all’establishment della Grande coalizione, dall’avventata promessa di accogliere tutti i profughi siriani — è stato fatto nel momento in cui di Erdogan venivano finalmente messi in chiaro i crimini politici, le misure antidemocratiche, i finanziamenti, le armi e l’addestramento offerti all’Isis.
Pur di sbarazzarsi dei profughi l’Unione europea, proprio mentre comincia a bombardare l’Isis senza intervenire sui flussi da cui provengano i soldi, le armi e gli appoggi di cui gode, è disposta a passare sopra a tutte queste cose; e persino a riaprire le procedure di ingresso della Turchia nell’Unione.
Con questo accordo i governi dell’Unione si sono però consegnati in mano a un feroce dittatore, che ora ha a disposizione una bomba umana (a questo servono i due milioni di profughi) da scagliare contro l’Unione appena si dimostrerà poco accondiscendente con le sue richieste. I primi a farne le spese sono i Kurdi, che non otterranno più asilo in Europa non potendo più sostenere di essere discriminati, perseguitati e massacrati in Turchia.
Così i capi di Stato di tutto il mondo, e soprattutto quelli europei, accorsi a Parigi (con puntate a Bruxelles) per lanciare una battaglia che non faranno mai contro i cambiamenti climatici, ne hanno approfittato per decidere invece una guerra; che oltre a creare migliaia di vittime e milioni di nuovi profughi è, di tutte le attività umane, quella che più contribuisce alla produzione di gas di serra; anche se nel computo delle emissioni climalteranti questa minuzia non viene mai calcolata.
Renzi se ne è per ora chiamato fuori, riscuotendo le lodi di sostenitori e avversari; ma solo per tenersi mani e truppe libere per la guerra in Libia che la Nato sta preparando. Non bisogna rifare il disastro della guerra contro Gheddafi, ripete; ma non si vede dove stia la differenza con quella in programma.
Se mettiamo in fila questi episodi grandi e piccoli ne esce il quadro di una governance dell’Unione europea totalmente allo sbando: quasi una banda di ubriachi che non sa più dove andare.
Quanto basta per ridicolizzare Stefano Manservisi (una specie di badante dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini), che concludendo giovedì scorso a Milano un convegno sul XXI rapporto dell’Ismu sulle migrazioni, aveva sostenuto che, se le politiche economiche hanno contribuito a mettere in crisi l’Unione europea, la condivisione delle misure sui migranti ne sta invece ricomponendo l’unità; aprendo la strada all’agognata unione politica…Peccato che quelle misure, oltre a essere criminali, sono inattuabili e, in alcuni casi, come l’accordo con la Turchia o l’entrata in guerra, suicide.
L’Europa allargata ai profughi e ai loro paesi di provenienza è un progetto che deve essere ripensato dalle fondamenta, costruendo innanzitutto un fronte di coloro che non vogliono rinchiudersi in una fortezza dominata dal cinismo, dal nazionalismo e dal razzismo.
Questo modo di governare, che spinge l’Unione europea verso l’insignificanza e la dissoluzione e spiana la strada alle forze antieuropeiste e razziste delle destre, evidenzia l’incapacità di misurarsi con le sfide che il pianeta e la popolazione mondiale si trovano di fronte.
Governano come se tutto dovesse continuare a scorrere come prima. La crisi climatica alle porte, e in molte regioni già in pieno corso, è solo una, e non certo la maggiore, delle questioni sul tappeto, su cui nessun uomo o donna di governo è disposto a giocarsi il proprio ruolo, e meno che mai a mettere in relazione i cambiamenti climatici con i profughi che sta cercando di tenere lontani. La guerra è un’altra quisquilia, affrontata con leggerezza e senza il minimo progetto per il dopo, per far salire di qualche punto la propria popolarità ormai irrimediabilmente a terra (come aveva fatto Blair a suo tempo; e sappiamo come è poi andata). Tutto viene deciso nella convinzione che, vinta la guerra — che in Afghanistan e in Iraq dura da anni e non si sa quando e come possa finire — governi finanza e imprese potranno continuare o riprendere gli affari di sempre.
Lo stesso vale per l’economia: la crisi sarebbe dietro le spalle perché il Pil di alcuni paesi registra un mezzo punto in più, senza considerare la scia di disoccupati, generazioni perdute, devastazioni ambientali, disperazione, miseria e rancori che l’austerity ha creato e a cui la “ripresa” non apporta alcun rimedio.
Peggio ancora per lo spirito pubblico: il pensiero unico, che è una rappresentazione vuota e falsa della realtà, ha lasciato dietro di sé, a destra, al centro e a sinistra, il deserto: una totale incapacità di raccogliere i fili di un progetto di salvaguardia del pianeta, delle vite e dei rapporti sociali tra le persone.
Siamo ormai in trincea, avendo allegramente dilapidato tutto quello di buono che avremmo potuto salvare di un’epoca ormai trascorsa. Dobbiamo prepararci a un lungo periodo di ricostruzione di una prospettiva più umana. Che il papa e la sua enciclica siano diventati un punto di riferimento non è un buon segno: perché è il risultato della miseria altrui.