Un pizzico a Monti, uno schiaffo a Ingroia un presago calcio a Grillo, una carezza e un buffetto per Bersani.
La Repubblica, 22 febbraio 2013
Monti si candida venendo meno a una parola detta parecchie volte, e dopo un prolisso gioco di reticenze: Bersani ha un po’ le mani legate, un po’ se le lega, per senso di responsabilità e per la sorpresa. La candidatura di Monti invece resuscita Berlusconi, che annaspava – prometteva di rinunciare a capeggiare il suo schieramento in rotta, era arrivato a invitare Monti a prenderne la guida. Berlusconi, che non ha il senso di responsabilità e delle convenienze che frena Bersani, si precipita a raccogliere l’insofferenza e anche l’esasperazione popolare verso il governo Monti: occorre una gran faccia tosta – ce l’ha. Di qui in poi l’orientamento della sua campagna è segnato, e non si negherà alcun eccesso, né glielo negheranno i suoi servi-padroni, a partire da Maroni. Bersani oscilla a lungo fra la moderazione dialogante verso Monti e l’impegno a raddrizzare la rotta. Oltretutto, accanto a lui ha dirigenti che fanno dell’alleanza subalterna a Monti l’asse della politica futura del Pd. Forse continua a pensare che tenere la posizione gli giovi, ma non è così. Tanto più che arriva il Monte dei Paschi, ed è il vero tornante critico della campagna.
Ma era già arrivato. Non è il Pd l’imputato, ma un peculiare intreccio senese di correnti contrapposte dentro e fuori del Pd e della massoneria, spesso trasversali. “Il Pd” però è stato al gioco e, quando finalmente ha cercato di smetterlo, ha confidato nelle linee interne dei nuovi amministratori. Ma quando, nel giugno scorso, il comune di Siena –simbolo per eccellenza della storia cittadina dell’Europa–viene commissariato, come una Giugliano o una Platì, e la cosa passa pressoché inosservata agli occhi della nazione, lì c’è una reticenza inspiegabile. Così, mentre la campagna di Bersani prendeva respiro e, soprattutto negli incontri diretti, affrontava le questioni essenziali, a cominciare dal lavoro e dai diritti, la rappresentazione pubblica era improntata alle formule più ridicole e alla sarabanda degli scandali. C’è del resto una differenza essenziale fra la cosiddetta tangentopoli e il ma-laffare attuale: che i vent’anni passati hanno fissato un’abitudine. Allora persone persuase d’essere impunite, e spesso incapaci di ammettere con se stesse di far male finché non fossero afferrate per la collottola, avevano una paura e una vergogna dannate del carcere. Alcuni preferirono morire. Vent’anni non sono bastati a riformare i costumi d’affare, al contrario: ma a cancellare la vergogna e la paura sì. Un po’ di galera, un po’ di gogna, ci sta: in proporzione ai guadagni. La sarabanda di scandali sarebbe stata pane per i denti di “Rivoluzione civile”, assembramento (avvilita traduzione del francese rassemblement) di pubblici ministeri e di partiti residui e per lo più autoritari, aspiranti a costituire “la vera sinistra”. Il voto a questa lista (promesso, di buono o di cattivo grado, da persone che sono sinceramente di sinistra) sorprende, non solo perché, com’è evidente, è “sprecato” e anzi vantaggioso per la peggiore destra, ma anche perché mostra uno sconcertante elettoralismo. Si mira a far arrivare in Parlamento una pattuglia di rappresentanti della “vera sinistra” (nel caso specifico: un pubblico ministero, tre segretari di partitini esausti, e così via) che non faranno se non perdersi d’occhio nei corridoi dei passi perduti. Peggio ancora se una simile scelta voglia giustificarsi decretando che “Berlusconi o Monti o Bersani, è tutta la stessa cosa”: altra sciocchezza troppo evidente per essere dibattuta. Quando si voleva, o si volesse ancora, fare una rivoluzione all’antica, partecipazione elettorale o astensione potrebbero essere discusse secondo il criterio del maggior vantaggio per il proposito di scardinare la “democrazia borghese” e di avere una tribuna per il proprio programma di sovversione. Quando non si voglia questo, le elezioni sono “semplicemente” il momento in cui si sceglie uno schieramento, e dunque un governo, rispetto a un altro: non la proiezione immediata e “pura” del proprio desiderio di palingenesi, ma la prospettiva più giusta e affidabile – o la meno iniqua e inaffidabile, le due formulazioni tendendo a fondersi.
Ma nemmeno gli scandali o l’esasperazione sociale basteranno a gonfiare le vele di un’ “estrema sinistra” raffazzonata, perché c’è Grillo. C’è da molto tempo, e il vento è suo. Fra uno che sullo Stretto vuole fare il ponte, e uno che lo attraversa a nuoto, è sciocco meravigliarsi che la gente applauda il secondo. Fa sorridere che lo si chiami comico. Grillo è un attore, non solo comico, e anzi si è sempre preso molto sul serio. Casaleggio dice oggi che Grillo è come Gesù: c’è dell’esagerazione, come disse Churchill alla notizia della sua morte. Ma Grillo, in quel film di Comencini del 1982 che si chiamava “Cercasi Gesù”, niente affatto comico, gli assomigliava davvero, e comunque faceva camminare i paralitici. Grillo è un attore che si identifica con il suo personaggio, e non gli mette limiti. Da molti anni recita la parte del capo che riscatta un popolo. Alcune scene gli riuscirono: la Parmalat strappava gli applausi. Altre sono orrende. Problema di copione. Il fatto è che un attore che si identifica pienamente e a lungo col proprio ruolo fuori dalla scena diventa qualcosa d’altro: un impostore.
Grillo è un grosso impostore (quanto grosso, vedremo; abbastanza da far guardare con tenerezza a Giannino e le sue lauree). Altro che comico. Fa la guerra, annuncia il bagno di sangue, intima allo Stato italiano di arrendersi: è troppo tardi, per tutti e per lui, per dire “è tutto uno scherzo”. Deve sbraitare oltre, finché gli resta fiato nei polmoni. Non è né fascista né comunista né ecologista e nemmeno, guardate, populista: cioè, è forse un po’ di tutte queste cose. È un impostore. Un tempo bisognava davvero fare delle terribili rivoluzioni per arrivare a Palazzo: ora basta la televisione, il web, una Procura. La storia di Grillo è scritta ne “La figlia del capitano” di Pushkin. C’è un brigante, Pugaciov, che dice di essere lo zar Pietro III, e si mette alla testa di una rivolta gigantesca. Dopo la caduta, in ceppi, prima d’essere giustiziato, a chi gli chiede pietosamente che cosa l’abbia spinto a quella pazzia, risponde fiero: “Io un giorno sono stato zar”. Succederà così anche a Grillo.
Intanto però, e torno all’inizio, al mio favore per Bersani e la sua competente misura –il tic di dire: “un po’”– bisogna che il Pd, le persone del Pd, traggano la lezione dal punto cui è arrivata: che le primarie e il loro rinnovamento non sono affatto un confine oltrepassato dal vecchio al nuovo. Il rinnovamento è un processo senza fine: non la terapia di una crisi, ma la circolazione ripristinata dentro un organismo non ostruito e soffocato. Se n’è accorto perfino un vecchio Papa.