«Io credo che un cittadino che voglia provare a fare dei discorsi che incidano sulla realtà debba informarsi su quali siano le norme e provare a cambiarle. Non da giurista, ma da cittadino, credo che è necessario agire sul continuum tra beni pubblici e beni comuni».
Il manifesto, 7 aprile 2013
«I dati dell’Eurostat sul finanziamento alla cultura e all’istruzione sono l'esito preoccupante di un'intera legislatura in cui le cose sono andate sempre peggiorando afferma Salvatore Settis, storico dell’arte che insegna alla Normale di Pisa e autore di Azione popolare (Einaudi) Seguono un trend condiviso di fatto dalla destra, dalla sinistra e dai tecnici, con un peggioramento netto con i governi di centro-destra. Ma non è che quelli di centrosinistra abbiano brillato molto. Gli ultimi tagli che sono stati apportati a tutto ciò che è cultura, ricerca, università e scuola sono il risultato della crisi. Come reazione alla crisi in Italia è prevalsa l'idea che la prima cosa da fare sia tagliare la cultura. Credo che sia importante sapere che questa è un'idea italiana, ma non di tutti gli altri paesi. Ci sono paesi come gli Stati uniti dove Obama ha detto che nei momenti di crisi bisogna accrescere la spesa per l'istruzione e la ricerca».
Mentre l’Inghilterra dei conservatori eccome se ha tagliato... L'Inghilterra è il caso che ci somiglia di più. Ma in Inghilterra il punto da cui partivamo è rimasto molto alto. Al British Museum si continua ad entrare gratis ed è molto più finanziato dei nostri musei. L'ex ministro francese Valerie Pecresse, una giovane signora della stessa età della nostra Gelmini, ma molto meglio di lei – non ci vuole molto, lei mi dirà – lanciò nel 2009 un piano straordinario della ricerca di 21 miliardi in 5 anni. Di fronte a questo vorrei notare anche la contraddizione drammatica, anzi quasi ridicola, fra il continuo uso dello slogan sviluppo e crescita, crescita e sviluppo, e poi non si fanno le cose che servono ad entrambi. Nel frattempo sono stati trovati i 40 miliardi per le imprese e gli enti locali. Perché all'emergenza dei tagli alla cultura, che certo non è dell'altro ieri, non è stata data una risposta altrettanto celere? Le priorità stabilite dai governi italiani rispondono ad un'economia miope e non lungimirante che non contiene innovazione. Per carità il problema delle imprese e dei comuni è assai grave, ma il fatto che abbiano trovato 40 miliardi e nemmeno 1 milione per la cultura fa parte di questo ordine di priorità. La seconda ragione è che le imprese hanno maturato una capacità di pressione sulla politica per ottenere quello che vogliono, mentre la cultura non ha maturato la stessa capacità».
Il prossimo governo sembra che avrà un solo compito: la legge elettorale e, forse, un paio di finanziare, di cui una straordinaria. Poi il voto. L'emergenza cultura sarà rinviata alla prossima legislatura? «Io ostinatamente credo, e spero, che nonostante tutto da questo parlamento nasca un governo che non duri tre o quattro mesi, ma l’intera legislatura. E che possa godere di una spinta che viene obiettivamente da tutto il paese. Finché questa mia speranza non sarà uccisa dai fatti continuerò a coltivarla».
La convince l'idea che l'investimento in cultura sia il «petrolio d'Italia», com'è stato ripetuto anche di recente?
«Non confondiamo il petrolio con il sangue. Il petrolio è petrolio e gli esseri umani sono esseri umani. Il valore metaforico di questo petrolio, che peraltro è una risorsa in esaurimento, non fa parte dell'armamentario delle metafore che uso. Credo che in Italia, come nel resto del mondo, l'economia e la società possano essere gestite con uno sguardo lungo nell'interesse delle generazioni future. L'innovazione è alla radice di qualsiasi forma di crescita e di sviluppo, ma essa non può esistere senza la ricerca e la ricerca non può esistere senza una buona scuola e una buona università. Bisogna però capire che la competitività si basa sulla conoscenza e non sulla commercializzazione della conoscenza. Se non prendiamo questa strada il paese è condannato.
Da tempo lei, insieme a giuristi come Stefano Rodotà o Ugo Mattei e altri studiosi, sostiene il teatro Valle occupato a Roma e l'ex colorificio occupato di Pisa, oggi sotto sgombero. Uno stile inconsueto per un intellettuale italiano. Crede che la cultura si affermi anche attraverso queste esperienze di auto-gestione?
«Io credo che un cittadino che voglia provare a fare dei discorsi che incidano sulla realtà, senza mettersi a fare il parlamentare dilettante, cosa che non mi attira per nulla, debba informarsi su quali siano le norme e provare a cambiarle. Non da giurista, ma da cittadino, credo che è necessario agire sul continuum tra beni pubblici e beni comuni. Così si può cercare di ricostruire un senso di cittadinanza, e quella sovranità del popolo prescritta dalla Costituzione che non è messa in pratica ma è il vero contenitore dei nostri grandi diritti, a cominciare dal diritto al lavoro, il più trascurato di tutti, come dimostrano le vittime della recessione. È quello che si sta cercando di fare attraverso gli esperimenti che lei ha citato. Ognuno ha preso una strada diversa. Nella sola Pisa, dove vivo, c'è anche il teatro Rossi occupato. Sono esperienze diverse, ma eticamente e politicamente le loro strade sono molto interessanti per riappropriarsi della cittadinanza».