Una onesta autocritica da parte di un esponente della sinistra che vorremmo. Pubblicato il 24 aprile 2013 sulla rivista
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È tempo di dirci la verità sulla sconfitta per il Quirinale. Al di là della girandola di nomi, dei tradimenti occulti e dei dissensi dichiarati, c'è un nocciolo politico che va portato alla luce. L'elezione del Presidente era l'occasione per dare un segnale di coesione nazionale, e su questo siamo tutti d'accordo. Ma per realizzare un tale nobile proposito occorreva scegliere tra due diverse strade.
1. La prima strada era l'accordo istituzionale tra il Pd e il Pdl: è l'ipotesi prevalsa tra i dirigenti, ma non tra i nostri elettori. Questi ultimi non hanno dimenticato che solo tre mesi fa Berlusconi stracciò impunemente un accordo simile, come suo costume da vent'anni, schierandosi all'opposizione e lasciandoci col cerino in mano di fronte agli elettori. Eppure è stato rapidamente perdonato dai nostri, dagli opinion leader e dallo stesso Monti che ne è stato la vittima suprema. Un curioso caso di masochismo dell'establishment.
La candidatura di Marini al Quirinale, come egli stesso ha onestamente riconosciuto, era connessa ad un accordo “a bassa densità” col Pdl per il governo, cioè a una versione camuffata del governissimo che fino a poche ore prima era stato rifiutato sdegnosamente dai nostri dirigenti.
I due partiti principali, oggi, rappresentano meno della metà degli elettori aventi diritto: circa 16 milioni su 46 totali, e le rispettive coalizioni ne hanno persi più o meno 10 milioni. Se avessimo impiegato almeno un'oretta nell'analisi del voto, avremmo constatato che più della metà del popolo italiano ha perso fiducia nel sistema politico nel suo complesso. In questo clima, qualsiasi intesa tra Pd e Pdl non solo non garantisce coesione nazionale, ma esaspera ulteriormente la frattura tra i cittadini e la politica. Le grandi intese, immancabilmente giustificate da stringenti motivi di governabilità, rappresentano la principale causa dell'ingovernabilità italiana. Fossimo andati al voto quando il governo tecnico era già logorato, o ancora prima, quando il partito di maggioranza non era più tale – in tanti paesi europei le elezioni hanno prodotto governi più stabili nonostante la crisi – avremmo impedito tanto la resurrezione di Berlusconi quanto la crescita di Grillo, proteggendo il normale bipolarismo.
Con la rielezione di Napolitano ci siamo impegnati a recitare ancora una volta lo stesso copione, e siamo entrati in un presidenzialismo di fatto, senza alcun fondamento costituzionale, con l'unica attenuante di avere una persona saggia e di incrollabile fede democratica a gestirlo. L'intera vicenda sembra suggerirci di adeguare la Carta allo status quo. Così, non solo non si esce dalla Seconda Repubblica, ma se ne aggrava la malattia: il ricorso all'"uomo solo al comando" e la retorica delle intese istituzionali sono forme di accanimento ridondante. Curiamo l'alcolista col cognac.
Pur comprendendo come la strada sia ormai almeno in parte obbligata, con il voto contrario espresso in Direzione ho voluto sottolineare la responsabilità dei nostri leader, e i gravi errori commessi.
2. Si poteva del resto scegliere la seconda strada, con la consapevolezza che la vera pacificazione non sia da ricercarsi tra i vecchi partiti, ma tra le istituzioni e il popolo. Con l'elezione di Grasso e Boldrini ci eravamo mossi in questo senso, ma il successo ci ha paralizzato. Dovevamo invece insistere, con determinazione ancora maggiore. Ad esempio con la candidatura di Prodi, personalità che ha sempre creduto nel bipolarismo e, pur senza mai scendere a patti, ha sempre mostrato rispetto per l'opposizione nonostante questa lo contrastasse con atti eversivi come Telekom Serbia e la compravendita di parlamentari.
Altrettanto forti sarebbero state le figure di indiscussa garanzia costituzionale come Zagrebelsky o Rodotà. Di quest'ultimo si dice che non andava votato sotto la pressione della piazza; dovremmo piuttosto chiederci perché non siamo stati capaci di proporlo prima che lo facessero gli agitatori. Avremmo ribaltato la partita, stringendo Grillo in una morsa: portare voti al nostro candidato oppure perdere quelli del suo elettorato. La rottura col passato avrebbe contribuito a ristabilire la fiducia di tanti cittadini verso la politica. In un clima nuovo sarebbe stato molto più facile far nascere il governo di cambiamento che per due mesi abbiamo inseguito inutilmente.
3. Il PD poteva dunque essere l'artefice del superamento della Seconda Repubblica, e non la causa della sua paralisi. I vigorosi segnali che in quelle ore si alzavano dalla nostra base non erano solo sentimenti impolitici o sterile indignazione, come dichiarato da diversi dirigenti che con quella base hanno perso il contatto. Contenevano invece la lucida richiesta di una svolta politica. Il nostro elettorato, come spesso è accaduto in questo ventennio, ha mostrato più intelligenza dello stato maggiore che avrebbe dovuto guidarlo.
Quegli stessi generali, responsabili diretti e indiretti del caos, invocano ora ordine e disciplina. La sconfitta non è colpa dei parlamentari scavezzacolli, ma di alcune correnti ben strutturate, di pezzi significativi della classe dirigente che guida il partito da troppo tempo senza più averne la necessaria autorevolezza. Il guasto è in alto, non in basso. Il progetto del Pd ha funzionato tra gli elettori e i militanti, ma non tra i dirigenti. La loro ostilità ha fatto mancare il sostegno sia a Prodi che a Rodotà; proprio i nomi più apprezzati dalla nostra gente e in grado di offrire garanzie a tutti i cittadini. Nomi che perlopiù rappresentano anche due sorgenti del Pd: l'Ulivo come origine fondativa, e l'intransigenza dei diritti come base culturale che in tutto il mondo caratterizza i partiti cosiddetti “democratici”.
Ho capito solo ora, e il pensiero mi sconcerta, che l'intenzione di molti dirigenti era di rinunciare a questi caratteri, senza timore di impoverire il PD pur di mantenerne il controllo.
4. Un disegno per giunta fallito, dal momento che nella Direzione di ieri il segretario dimissionario ha parlato di insanabile “anarchismo”. Aveva vinto il congresso del 2009 promettendo di consolidare il nascente Pd, che fin dall'inizio aveva dato segni di ingovernabilità. All'epoca noi “bersaniani” attribuimmo quei sintomi alla maggioranza veltroniana e promettemmo un partito più compatto. Dopo il dramma di questi giorni, ahimé, bisogna riconoscere che l'ingovernabilità si è addirittura cronicizzata.
La promessa riforma del partito venne rapidamente accantonata, e per un'incredibile paradosso è stato proprio Bersani a portare alle estreme conseguenze la linea di Veltroni. La famosa "vocazione maggioritaria" si è realizzata facendo affidamento sul premio di maggioranza della legge elettorale piuttosto che su una convincente proposta per uscire dalla crisi più grave del secolo.
In più, abbiamo optato per le primarie "sempre e comunque". Anche a me è piaciuto molto prendervi parte, come parlamentare uscente, ma sono forse diventate un coperchio che nasconde i veri problemi e irrigidisce le scelte, compresa quella del premier. Da qui è nato l'errore che ha generato poi tutti gli altri. Dopo la sconfitta elettorale – ed è bene riconoscerla – Bersani avrebbe dovuto candidare un'altra personalità a Palazzo Chigi, guidando il processo in qualità di segretario del partito. Ne sarebbe uscito da protagonista, e noi avremmo raccolto risultati migliori. La stima che nutro per lui mi ha spinto a dirglielo apertamente nella riunione della Direzione post-voto. Coloro che la pensavano allo stesso modo sono purtroppo rimasti in silenzio.
Ora serve chiarezza in vista del congresso. La maggioranza che ha guidato il partito deve stilare un bilancio del mandato ricevuto. E non credo possa dirsi soddisfacente, se il 40% dei partecipanti alle primarie ha scelto Renzi e se il 25% dei voti nazionali è andato a Grillo. Evidentemente il nostro progetto per il Pd – che ritengo di conoscere, avendo contribuito a scrivere a suo tempo la mozione congressuale – non ha saputo contenere e tanto meno ridurre il malessere del nostro elettorato, espresso in particolare nelle roccaforti tosco-emiliane. Siamo tutti responsabili, e chi ha fatto parte della maggioranza lo è ancora di più. Da questo bisogna ripartire. Tutti insieme cercheremo di rilanciare il PD sui problemi gravi del Paese, e sulle nuove ambizioni del centrosinistra.