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Eddyburg
Dal profondo del paese della vergogna
1 Maggio 2013
Articoli del 2013
Tre articoli di Andrea Fabozzi, Paolo Favilli, e Pierfranco Pellizzetti.
Tre articoli di Andrea Fabozzi, Paolo Favilli, e Pierfranco Pellizzetti.

Il manifesto, 1 maggio 2013

BERLUSCONI IL RIFORMATORE
di Andrea Fabozzi

Ieri il governo delle larghe intese ha avuto la fiducia anche del senato, ma poco prima Berlusconi gliel'aveva già tolta. Parlando dell'Imu e della convenzione per le riforme, il cavaliere alleato ha espresso un pensiero semplice: o si fa come dico io o faccio cadere il governo. Prima ancora di cominciare a crederci, dunque, il presidente del Consiglio Letta può scambiarsi di posto con il vice presidente Alfano. Realizzerebbe oltretutto il desiderio che ha confessato in aula: sedere tra i ministri ma non come primo ministro. In effetti non sembra che lo lasceranno guidare.

L'illusione di un Berlusconi affidabile è durata così 24 ore. Si potevano risparmiare anche quelle evitando di resettare la memoria degli ultimi 20 anni. Il Pd, di fronte all'immediato sgretolarsi del suo piano B (o era il piano A?) ha reagito con quel riflesso di responsabilità che tanti insuccessi ha garantito. Ha richiamato i nuovi alleati alla nobiltà del compromesso. I nuovi alleati hanno risposto con la nobiltà, e la grazia, di un Brunetta o di un Gasparri. Immaginate.

Ci toccano le repliche del governo Monti, due mesi dopo. Il Pd a puntellare l'insostenibile e il Pdl ad ammonticchiare quotidiane macerie per scalare la sua rimonta elettorale, regalando il resto a Grillo. Non che gli strateghi democratici e quirinalizi siano così ingenui, anche in questo caso hanno un piano. Concepiscono le larghe intese come il purgatorio necessario per uscire dall'inferno del bipolarismo conflittuale (che pure non gli era sembrato tanto male, all'ora). Tentano ancora di costituzionalizzare Berlusconi, in questo caso adattando la Costituzione a Berlusconi. Che continua a illuderli, presentandosi adesso come il nipote di De Gaulle. Dal bipolarismo conflittuale alla coalizione ricattatoria non c'è chi non veda il progresso. Ora il Pd può coerentemente dare al cavaliere alleato la guida della nuova bicamerale, evitando richieste peggiori. Tipo Lorenzin alla sanità, Quagliariello alle riforme o Lupi alle telecomunicazioni, non si sa mai.


GOVERNISSIMO
È TORNATO IL SIGNORE DELLA CORRUZIONE
di Paolo Favilli

Paolo Volponi, ne Le mosche del capitale, (1989) osserva un paesaggio italiano ancora «bello e pingue, ma svagato e stracco come se aspettasse una passata di peste e una notte da Medioevo». Il romanzo è ambientato nel 1980 ed è, nella sua lucidità, un premonizione ragionata della barbarie che stava arrivando. I suicidi «per cause economiche», episodi estremi, si manifestano come indicatori, spie dei modi di declinazione della barbarie nei tempi dell'inversione del progetto democratico.

Il progetto democratico, infatti, è del tutto compenetrato dalle logiche di uno svolgimento intrinsecamente opposto a quello della barbarie: un percorso in cui si declinano le forme storicamente possibili dell'uguaglianza, scandite dall'ampliamento progressivo della sfera dei diritti.

La dinamica regressiva dell'ultimo trentennio, le sue cause strutturali, non sono purtroppo elemento essenziale del discorso politico. Non è un caso. Da tempo ormai la politica ha scelto l'irrilevanza. Questo non è un problema per le parti politiche organiche alle classi dominanti. Il pilota automatico (si fa per dire, la scelta politica è implicita) che gestisce economia e società è garanzia di funzionamento adeguato per logiche e interessi cui tali parti politiche sono organiche. Per le parti la cui funzione storica era stata quella dell'emancipazione dei subalterni, si è trattato, invece, della catastrofe. Catastrofe di quella funzione storica, non certo dei destini personali dei molti che, di quella parte, provengono dal ceto politico dirigente. Anzi mai come negli anni dell'inversione del progetto democratico i loro destini sono stati contrassegnati da onori e privilegi.

Si è avverata la profezia di Leonardo Sciascia che ne Il contesto fa dire ad un leader del partito di governo sollecitato ad «aprire» nei confronti del partito di Enrico Berlinguer: «Questo paese non è ancora arrivato a disprezzare il partito del signor Amar quanto disprezza il mio. Nel nostro paese il crisma del potere è il disprezzo». Ora disprezzo e potere si sono alfine pienamente coniugati. Ecco allora che dell'orrore in cui siamo immersi possiamo dare conto solo prendendo le distanze dal luogo della narrazione dei giochi incrociati tra i poteri, per immergersi nel luogo della narrazione delle punte estreme dell'orrore quotidiano, della banalità dell'orrore. D'altra parte sappiamo bene, ormai, come in genere sia proprio l'analisi dei «margini» a darci conoscenza sulla verità del «centro».

La microstoria del triplo suicidio «per povertà», avvenuto recentemente a Civitanova Marche, non è altro che la riduzione di scala di problemi di ben più ampia dimensione. Vanno affrontati con analisi politiche e socio-economiche a quello stesso livello. Una microstoria innervata del senso profondo della storia generale che stiamo vivendo. Romeo Dionisi e Maria Sopranzi, i due coniugi che si sono impiccati in un garage di Civitanova, avevano interiorizzato la lezione sulla dignità dell'uomo che ha caratterizzato la storia dell'emancipazione dei subalterni, e non hanno retto alla vergogna del suo attuale naufragio.

La vergogna è paralizzante, distrugge le risorse interiori proprio perché è la condizione prodotta dalla perduta dignità. Romeo Dionisi e Maria Sopranzi si trovavano a giudicare degradante una situazione economico-sociale degradata. L'identità va in pezzi. Se gli esiti suicidali rimangono marginali, tuttavia il processo descritto riguarda ormai milioni di persone. La povertà diventa miseria proprio perché la povertà è indotta da un ulteriore ciclo di modernizzazione. Il ciclo dell'invenzione della scarsità, della scarsità socialmente costruita.

La modernizzazione della povertà, la sua riduzione a miseria, è uno dei parametri fondamentali su cui si articola l'analisi del capitalismo nell'età contemporanea. Nei cosiddetti «trenta gloriosi» (fine anni Quaranta, fine anni Settanta), si era avviata un'inversione di tendenza, un ciclo opposto: quello del percorso democratico; poi uno nuovo di modernizzazione. La banalizzazione del moderno, ma insieme la sua riduzione a senso comune dominante, la si può cogliere bene nell'affermazione lapidaria di una delle firme del Corriere della Sera relativamente al merito maggiore della Thatcher: «Ha costretto l'Inghilterra a diventare moderna» (Severgnini, 22/04/'13). La tragedia sociale dei subalterni come indice di modernità.

Alla banalizzazione della modernità si accompagna, in particolare nel caso italiano, la banalizzazione del nesso tra questione politica, questione morale e questione criminale. Il braccio destro (o sinistro) di Berlusconi è stato condannato in via definitiva per corruzione in atti giudiziari. La corruzione è avvenuta con l'utilizzazione di fondi riconducibili al suo datore di lavoro ed a vantaggio dello stesso. Il suo braccio sinistro (o destro) è stato condannato in primo e secondo grado (cioè nel giudizio di sostanza) per concorso in associazione mafiosa. In particolare nel suo ruolo di interfaccia (protettiva o meno) tra tale associazione e il solito datore di lavoro. È necessario ricordare che la lunga fase politica in cui siamo ancora immersi è cominciata proprio con il tridente d'attacco Berlusconi, Previti, Dell'Utri, cioè la triade fattuale di ciò che è stato provato: intreccio di questione politica, questione morale, questione criminale. Il corpo a cui appartengono il braccio sinistro ed il destro, dopo una breve parentesi, è ritornato ad essere uno dei signori della politica italiana. Si tratta di un fenomeno obbiettivamente mostruoso («che suscita stupore e meraviglia, straordinario» ), ma ancora più mostruoso il fatto che non sia avvertito come tale da chi ancora, qualche volta, evoca Enrico Berlinguer, sia pure in riferimenti del tutto retorici.

Tale mostruosità ha a che vedere con i lineamenti lunghi di una tipicità italiana. Lineamenti che si manifestano in maniera carsica, ma che tendono sempre a ritornare in superficie nei momenti in cui le risposte alle crisi emergono dalla decomposizione di climi caratterizzati da forte tensione etico-politica. Per dirla con il fulminante incipit tolstoiano di Anna Karenina: «Le famiglie felici si rassomigliano tutte. Ogni famiglia infelice, invece, lo è a modo suo». E nella famiglia Italia la crisi fa emergere componenti di lungo periodo che si coniugano agevolmente con la tradizione, anch'essa di lungo periodo, della politica come luogo privilegiato della coltivazione raffinata della pianta cinismo. Il fatto che lo scioglimento del nodo rappresentato dalla suddetta triade, vero e proprio paradigma della politica alta, sia stato sterilizzato, tolto dal campo della politica, dimostra come quella pianta sia divenuta rigogliosa.

«Intese non sono orrore...», ha tuonato Napolitano divenuto il presidente di una Repubblica con una nuova costituzione materiale. L'affermazione è un'ovvietà. Le intese figlie di un cinismo tanto profondo e radicato sono invece proprio l'orrore. Un indicatore preciso di barbarie politica. Solo la presa di coscienza degli aspetti fondamentali di questa barbarie, delle loro radici profonde, della necessità di una discriminante netta, sia etico-politica che analitica, nei confronti del vasto fronte della banalizzazione cinica, può costituire il punto di riferimento unitario di una sinistra divisa e dispersa.


PAROLE KILLER
INCIUCIO, IL LESSICO DEL POTERE
di Pierfranco Pellizzetti

Il presidente taumaturgo Giorgio Napolitano, quale primo atto ad alto valore simbolico della sua sacralizzazione, ha posto all'indice il termine inciucio. Nel frattempo la clacque si è premurata di spiegare che il compromesso sarebbe l'essenza stessa della politica, nel machiavellismo d'accatto del fine che giustifica i mezzi (e Albert Camus rispondeva: «Ma chi giustifica i fini?»). C'è, tuttavia, compromesso e compromesso. Per dire, quello keynesiano è un po' diverso dall'accordo collusivo sottobanco definito - appunto - inciucio. La rimozione lessicale per diktat presidenziale indica che questo lungo tramonto inverecondo della «Seconda Repubblica» trova uno dei suoi principali campi di battaglia nell'imposizione delle parole che determinano il pensiero pensabile mainstream. In perfetta simmetria con quanto già era avvenuto proprio agli albori di tale fase politica nazionale.

Infatti, agli inizi degli anni Novanta - mentre la crisi di Tangentopoli veniva aggirata virando la questione morale in questione istituzionale (maggioritario versus proporzionale, elezione diretta dei sindaci, ecc.), deviando l'attenzione dai comportamenti concreti alle regole astratte - i laboratori sul libro-paga del Potere elaborarono il nuovo lessico al servizio del controllo sociale. Parole-killer incaricate di ferire a morte tendenze incontrollabili e dunque pericolosissime per i gestori degli immaginari.

Fu il tempo in cui comunista perse qualsivoglia riferimento storico e culturale diventando sinonimo di generica ignominia, un po' come giudeo in bocca a un nazista; quando giustizialista compì la trasmigrazione di significato da movimento peronista degli anni Cinquanta in utilizzo ingiusto dell'azione penale allo scopo di perseguitare innocenti.

Le odierne perversioni linguistiche, che iniziano a risuonare nelle invettive dei pompieri che accorrono a frotte per sostenere il nuovo corso sulla carta stampata e nei talk show, privilegiano demagogo e populista. Sicché viene bollato con il marchio infamante della demagogia chiunque osi avanzare dubbi sull'apprezzabilità che la corporazione trasversale del potere abbia realizzato il proprio salvataggio aggrappandosi a un antico apparatciki migliorista, fossilizzato nell'idea che la priorità democratica consiste nel preservare il controllo dei partiti sulla società. Populistica diventa la messa in discussione dell'assunto che la mattanza dei diritti sociali e la precarizzazione della vita, effetto di massa del paradigma liberistico, corrisponda al migliore dei mondi possibili; anzi, all'one best way della società nella vaticinata fine della storia.

Se di sovente le parole sono pietre, talvolta diventano catene per imprigionare i corpi attraverso le menti. Per occultare l'inconfessabile. La ricostruzione mistificatoria del paesaggio mentale, di cui siamo agli albori, induce a pensare che si stanno ponendo le basi per equilibri di lungo periodo. Alla faccia del «governo di servizio per fare cinque cose cinque e poi le elezioni», teorizzato dal vice direttore de la Repubblica Massimo Giannini nel tentativo di salvare la collocazione del quotidiano.

Ormai il clima sta cambiando, dopo i giorni in cui le maldestraggini dei rivoluzionari onirici del web e i gattopardismi dei rinnovatori altalenanti hanno spianato la strada alla protervia dei restauratori. E si è realizzata l'operazione perfetta della collusione spartitoria innominabile (massì, inciucio). Clima destinato a durare, che rischia di andare rafforzandosi nel momento in cui l'indignazione generale - come qualche segnale induce a pensare - scivola nel fatalismo di massa, l'istanza collettiva a difesa del principio democratico preso sul serio ripiega nella ricerca individuale di tutele materiali. Parlando il linguaggio della sottomissione.

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