«Nel mondo globale, si sprigiona oggi una forza dei diritti che si manifesta nei luoghi più vari e ad opera di una molteplicità di soggetti. Si affiancano, e talora si sostengono reciprocamente, movimenti popolari e interventi delle corti, iniziative legislative e azioni di gruppi sociali organizzati».
La Repubblica, 14 luglio 2013
Nelle parole ferme ed eloquenti di Malala si deve cogliere proprio questo spirito. Non vi è soltanto il rifiuto del terrorismo, l’orgogliosa rivendicazione del “non mi piegheranno”. Vi è una indicazione politica precisa: il diritto all’istruzione è l’arma più potente, e per ciò più temuta, nella lotta al terrorismo. Sì che la strategia militare, l’unica effettivamente praticata con enorme dispendio di risorse economiche, non può mai essere sufficiente. Vi è un dovere degli Stati di intervenire perché il diritto all’istruzione sia effettivo e garantito a tutti: quelli che insistono sulla necessità di accompagnare al discorso dei diritti quello dei doveri, dovrebbero cimentarsi con temi come questo, e non usare l’insistenza sui doveri come strumento per svuotare di significato soprattutto i diritti sociali.
La riflessione sulla lotta al terrorismo al di là della pura logica militare o poliziesca incontra la questione del Datagate. La reazione ad una schedatura planetaria ad opera degli Stati Uniti ha rimesso in onore un diritto, quello alla privacy, alla protezione dei dati personali, di cui si era certificata la morte proprio per legittimare qualsiasi raccolta di informazioni personali, riducendo le persone al ruolo di fornitori obbligati di dati ritenuti necessari per il funzionamento del mercato e di meccanismi totalizzanti di controllo. Di nuovo la rivendicazione planetaria di un diritto, di cui siamo tornati a scoprire la funzione di tutela di libertà fondamentali.
Al fondo di queste due vicende si scopre l’assoluta mancanza di rispetto per i diritti di tutti e di ciascuno, sempre sacrificabili per una ragion di Stato o di
mercato. Si è radicata quella indifferenza peraltro denunciata a Lampedusa dal Pontefice, con accenti che toccano in primo luogo e giustamente i migranti, ma che davvero riguardano tutti. La costruzione intorno ai migranti di un nuovo modo d’intendere i diritti è davvero questione ineludibile, per la qualità e quantità del fenomeno, globale per definizione e dal quale dipende l’assetto futuro del mondo. È una “politica dell’umanità” che deve essere avviata, indispensabile perché ciascuno di noi possa uscire da una condizione che ci ha fatto prigionieri dell’egoismo, che ha interrotto i legami sociali, che ci consegna una società frammentata nella quale, come ha scritto Luigi Zoja, facciamo i conti con “la morte del prossimo”.
Nel suo ultimo romanzo, Aldo Busi ha descritto con parole dirette questa condizione: «C’erano una volta gli altri e poi improvvisamente scomparvero dalla faccia della terra e io non fui pertanto più un altro per nessuno». Alla scomparsa delle persone, sostituite da astratti simulacri modellati sulle esigenze del consumo o del controllo, si reagisce proprio rivendicando la materialità dell’essere e dei bisogni, e misurando su questi i diritti di ciascuno. Ritorna imperioso il bisogno di pronunciare la parola più negletta della triade rivoluzionaria, “fraternità”, ricordando che l’articolo 2 della nostra Costituzione parla di “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Non a caso si invoca oggi una “solidarietà globale” come orizzonte della politica. Così la rivendicazione dei diritti, che qualcuno vuol leggere come estrema frontiera dell’individualizzazione, si immerge invece nel contesto sociale, trova le sue radici in una “rivoluzione della dignità” che non è solo quella del singolo, ma la “dignità sociale” alla quale si riferisce l’articolo 3 della Costituzione. Forse possono tornare tempi propizi per quello che Eligio Resta ha chiamato un “diritto fraterno”.
Queste non sono dichiarazioni di buoni propositi o sentimenti, ma linee direttive lungo le quali si muovono concretissimi interventi a tutela della persona e dei suoi diritti. Se, per fare un solo esempio, si considerano le molte sentenze con le quali diverse corti hanno affrontato il conflitto tra il diritto fondamentale alla salute e il potere di Big Pharma, delle grandi multinazionali farmaceutiche, si coglie una tendenza a far prevalere le ragioni della salute su quelle del profitto con caratteristiche davvero globali, visto che si va dalle corti costituzionali di Sudafrica e India alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Quest’ultima, il 13 giugno, ha pronunciato una sentenza che pone limiti alla brevettabilità del genoma, con diverse specificazioni, ma sostanzialmente accogliendo le sollecitazioni di chi voleva infrangere il monopolio di una società, Myriad Genetics, per quanto riguardava i test riguardanti il cancro al seno. E, in più di una decisione, la prevalenza accordata ai diritti fondamentali è strettamente collegata con la considerazione come beni comuni dei mezzi direttamente necessari per la loro attuazione.
Nel mondo globale, dunque, si sprigiona oggi una forza dei diritti che si manifesta nei luoghi più vari e ad opera di una molteplicità di soggetti. Si affiancano, e talora si sostengono reciprocamente, movimenti popolari e interventi delle corti, iniziative legislative e azioni di gruppi sociali organizzati. Qui la politica deve fare le sue prove, pena la sua crescente marginalizzazione. Dobbiamo ricordarlo oggi, perché si avvicinano le elezioni europee e la delegittimazione dell’Unione, dovuta alla sua totale identificazione con la logica dei “sacrifici”, può essere arrestata solo se si ricorda che esiste un ordine europeo nel quale, con lo stesso valore giuridico dei trattati, esiste una Carta dei diritti fondamentali.
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