Ho sempre trovato a suo modo struggente un aneddoto che riguarda gli ultimi anni della vita di Freud riportato dal suo biografo Ernst Jones. Invitato in una prestigiosa università americana a tenere una conferenza in presenza delle maggiori autorità accademiche, mentre stava tenendo il proprio discorso il padre della psicoanalisi veniva costantemente disturbato da una persona tra il pubblico che non tratteneva il proprio dissenso.
A nulla servirono gli interventi del direttore dell’università per calmarlo, al punto che si dovette prendere la misura estrema di allontanare il facinoroso dall’aula. Ma anche fuori dall’aula l’uomo continuava a strepitare disturbando lo svolgimento della conferenza e costringendo il direttore a comunicare a Freud la sua decisione di chiamare la polizia per ristabilire l’ordine. A quel punto Freud stesso intervenne chiedendo al direttore di non procedere in quella direzione, ma di fare rientrare in aula il “dissidente” offrendogli la possibilità di parlare apertamente.
In questo aneddoto troviamo riassunta efficacemente non solo l’etica della psicoanalisi — dare la parola, includere, ascoltare l’Altro che disturba — ma anche una lezione di democrazia politica più ampia: dare la parola e ascoltare l’Altro che disturba significa praticare una faticosa politica di inclusione che non cade nella tentazione del rigetto violento del dissenso.
L’immagine biblica della torre di Babele racconta, tra le altre cose, proprio l’origine della politica come arte della traduzione delle lingue. Nella sua vicenda non è in gioco solo il rapporto tra la superbia degli uomini e l’esigenza di Dio di ribadire contro di essa la sua sterminata potenza. In primo piano, come è stato notato da molti commentatori — da Benjamin sino a Derrida — è il grande tema della lingua e del nome proprio.
Quale è il peccato più grande commesso dai babelici? È quello di voler realizzare la propria impresa escludendo la possibilità di lingue differenti. Essi, infatti, si radunano attorno a un principio forte di identità: “un solo popolo” e “una sola lingua”. Gli uomini della Torre vogliono assaltare il cielo sfidando Dio non solo perché esibiscono la loro ambizione in una spinta ascendente che vorrebbe escludere l’esperienza del limite, ma perché in questo slancio fallico-narcisistico essi vogliono farsi un nome da se stessi.
I babelici sono animati da un desiderio autogenerativo: un solo popolo, una sola lingua, una sola Torre. L’opera incessante di edificazione sembra consegnarsi al culto idealizzato dell’immagine del proprio Io. Costruire la Torre è un modo per generarsi da sé inseguendo un miraggio di autosufficienza. Si tratta di una hybris che viola ogni processo di filiazione. L’esistenza di un solo popolo e di una sola lingua esclude la lingua dell’Altro: l’architettura della Torre esige la compattezza uniforme di una sola lingua e l’idolatria del Nome che si fa da sé. Non è questa una delle cifre più evidenti del nostro tempo? Non viviamo immersi nello sforzo incessante di edificazione del nostro nome proprio? Farsi un nome non è l’imperativo egemone nella concezione occidentale della vita?
Il peccato dei babelici è non aver considerato che l’esistenza di una sola lingua sopprime altre possibilità linguistiche, ovvero altri possibili modi di essere. L’auto-nominazione dei babelici vorrebbe invertire l’atto della creazione attraverso il quale Dio genera gli esseri viventi ciascuno nella propria differenza. La loro spinta alla comunione vorrebbe cancellare il disturbo dell’Altro, il disturbo dell’Altra lingua, del dissenso dell’Altro come, invece, emerge bene dal racconto freudiano.
E quando Dio discende per osservare più da vicino l’opera dei babelici, non può non notare che la loro impresa punta proprio a sopprimere l’esperienza della differenza sulla quale si fonda la Creazione. Per questo egli utilizza lo strumento della pluralità delle lingue confondendo gli uomini della Torre, correggendo la loro illusione della lingua unica. In questo modo costringe gli uomini, come si esprime Benjamin in Angelus Novus, alla «necessità della traduzione», al lutto per una “sola lingua” e un “solo popolo”.
Non si tratta di un semplice castigo ma di un riorientamento: la vita dell’uomo cresce e diviene generativa, capace di democrazia, solo se rinuncia al sogno colonialista di una lingua unica, solo se rispetta il pluralismo delle lingue e la fatica della traduzione.
In primo piano non è il Dio geloso preoccupato nel preservare la sua onnipotenza di fronte all’assalto della superbia dell’uomo, ma l’indicazione preziosa che la vita insieme esclude la comunione,l’immedesimazione, la massificazione, perché “il comune” è sempre costituito da differenze irriducibili. Una comunità non può abolire, diversamente dalla illusione nefasta della comunione, le differenze tra le lingue e tra i nomi propri, non può tendere all’assimilazione uniforme, alla massificazione anonima.
È una indicazione che ritroviamo anche nell’aneddoto di Freud: solo nell’ascolto della lingua dissidente si dà la possibilità di una comunità umana.