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Gaetano Azzariti
Come esercitare in Italia l'atto regale della "grazia"
15 Agosto 2013
Articoli del 2013
L’istituto giuridico della grazia in Italia: come, perché e quando, se è chiesta, può essere concessa; "ragioni umanitarie" e "agibilità politica. Un commento di Gaetano Azzariti e un'intervista di Andrea Fabozzi ad Andrea Pugiotto.
L’istituto giuridico della grazia in Italia: come, perché e quando, se è chiesta, può essere concessa; "ragioni umanitarie" e "agibilità politica. Un commento di Gaetano Azzariti e un'intervista di Andrea Fabozzi ad Andrea Pugiotto.

Il manifesto, 15 agosto 2013


I confini stretti della clemenza
di Caetano Azzariti

Qualora Silvio Berlusconi decidesse di chiedere la grazia al capo dello Stato non è affatto detto che questa possa essere concessa. La domanda - come ricorda Napolitano - dovrebbe essere sottoposta a «un esame obiettivo e rigoroso» per verificare se sussistono le condizioni che possono motivare un atto di clemenza presidenziale. Una decisione della Corte costituzionale (la numero 200 del 2006, puntualmente richiamata nella dichiarazione presidenziale) ha chiarito quali sono questi requisiti.

L'esercizio del potere di grazia - ha scritto la Consulta - risponde a finalità essenzialmente umanitarie. Nel caso di Silvio Berlusconi quali sarebbero le ragioni umanitarie? A scanso d'equivoci, si tenga presente che gli argomenti dell'accanimento-persecuzione dei giudici nei confronti del leader del centrodestra ovvero la pretesa rivendicazione di innocenza nei confronti dello specifico reato di evasione fiscale non possono essere utilizzati per motivare la domanda di grazia, dovendo darsi per scontato che l'atto di clemenza individuale ha come suo presupposto il riconoscimento della legittimità della pena inflitta. Come si scrive in ogni manuale di diritto, l'istituto della grazia incide sull'esecuzione di una pena validamente e definitivamente inflitta. Non si spiegherebbe altrimenti la ritrosia di molti detenuti alla presentazione della domanda di grazia: Adriano Sofri, ad esempio, rivendicando la propria innocenza, non ha mai accettato di presentare domanda.

Nel caso di Berlusconi appare assai significativo, inoltre, che il capo dello Stato abbia sì fatto riferimento alla possibilità di esaminare con attenzione un'eventuale richiesta di clemenza, ma abbia altresì escluso di poter concedere la grazia motu proprio, come pure l'articolo 681 del codice di procedura penale autorizzerebbe a fare. Dunque, la richiesta al leader del centrodestra è anzitutto quella di smentire se stesso, ponendo fine alla sua guerra personale con i giudici.

Riconosciuta, però, così la legittimità della condanna, per quale ragione dovrebbe essere concessa la grazia? Non vi sono gravi ragioni di salute che in molti casi motivano l'atto di clemenza. Né può dirsi che le condizioni in cui verrebbe a scontare la pena (gli arresti domiciliari presso una delle sue ville ovvero l'affidamento al servizio civile) possono essere ritenute contrarie al senso di umanità che deve essere assicurato al condannato ai sensi dell'articolo 27 della nostra costituzione. Né, infine, può sostenersi nel caso di Berlusconi che la grazia favorirebbe «l'emenda del reo ed il suo reinserimento nel tessuto sociale» (seguendo le indicazioni di una sentenza della Corte costituzionale del 1976, n. 134).

In realtà, è evidente a tutti l'unica ragione per la quale si dovrebbe accordare la grazia a Silvio Berlusconi: la ragion di Stato, che nel nostro piccolo si sostanzia con la sopravvivenza del governo di larghe intese. È il ruolo di «leader incontrastato di una formazione politica di innegabile importanza» (così Napolitano) che indurrebbe a restituire almeno una parte di «agibilità politica» ad un condannato per reati accertati in via definitiva dalla Corte di cassazione sulla scia di due precedenti e conformi giudizi. Dunque, una grazia «politica».

E qui è il vero ostacolo che dovrebbe precludere la strada alla concessione della grazia da parte del nostro presidente della Repubblica. Almeno se ci si vuole attenere a quanto affermato dalla sentenza della Corte costituzionale richiamata da Napolitano (la n. 200 del 2006), che, se ha assegnato l'esclusiva titolarità del potere di grazia al presidente della Repubblica, ha altresì ritenuto di escludere che si possano ritenere fondamentali altri elementi se non quelli di natura umanitaria. Il potere di grazia - ha scritto la Consulta - spetta al capo dello Stato proprio perché egli rappresenta l'«unità nazionale» ed è dunque estraneo al «circuito» dell'indirizzo politico-governativo. Non dovrebbero dunque rientrare tra le sue valutazioni quelle attinenti alla sfera della politica, ma limitarsi ad adottare provvedimenti di clemenza per ragioni umanitarie.

Molti costituzionalisti - chi scrive tra questi - hanno criticato a suo tempo la decisione della Consulta, proprio sostenendo l'indeterminatezza di questa distinzione tra ragioni umanitarie e ragioni politiche che si pongono alla base di ogni decisione di clemenza nei confronti di un condannato; proprio per questo non si condivise - a suo tempo - l'attribuzione al solo presidente della Repubblica di un potere di grazia. Ma, come per le sentenze della Cassazione, anche le decisioni del giudice costituzionale devono essere applicate con rigore. In assenza di ragioni umanitarie la grazia a Berlusconi non può essere concessa, mentre il suo ruolo decisivo per la salvaguardia degli equilibri politici, così fortemente custoditi dal presidente Napolitano, non possono essere posti alla base di un atto di clemenza. Un comma 22 per il soldato Berlusconi.

La grazia? Un rischio per Letta
Andrea Pugiotto intervistato d Andrea Fabozzi

Se il presidente della Repubblica graziasse Berlusconi innescherebbe un cortocircuito istituzionale. Si tratterebbe di un atto irregolare che ricadrebbe sul ministro che deve controfirmarlo e su tutto il governo

Andrea Pugiotto è professore di diritto costituzionale nell'Università di Ferrara. Ha scritto diversi articoli e monografie dedicati al potere presidenziale di grazia. Professore, nella nota del Quirinale si fa riferimento a un provvedimento di clemenza per Berlusconi, specificando la necessità che venga formalmente richiesto. Le pare corretto?

Sì. L'articolo 681 del codice di procedura penale - richiamato nella nota - riconosce l'impulso alla concessione della grazia su domanda del condannato o su proposta di altri soggetti legittimati (ad esempio un suo legale o un familiare). La titolarità del potere porta con sé anche la possibile concessione d'ufficio da parte del Quirinale. In tutti i casi, è messa in moto una complessa istruttoria che sfocia nella decisione del Capo dello Stato, sentito il parere non vincolante del Guardasigilli.

A suo avviso il caso di Silvio Berlusconi rientra tra quelli che in astratto possono essere oggetto di un atto di clemenza individuale?
La risposta è nella Costituzione, così come interpretata dalla Consulta nella sentenza n. 200/2006: la grazia si giustifica solo quale «eccezionale strumento destinato a soddisfare straordinarie esigenze di natura umanitaria». Ha uno scopo eminentemente equitativo, dunque, non di politica attiva. Da qui il riconoscimento della titolarità del potere al «Capo dello Stato, quale organo super partes, rappresentante dell'unità nazionale, estraneo al circuito dell'indirizzo politico-governativo». Quella sentenza ha inteso spoliticizzare l'atto di clemenza - fino ad allora abusato - proprio per evitare che una decisione governativa possa interferire con l'operato della magistratura, giudicante e di sorveglianza.

Eppure non sono mancate, in passato, grazie politiche
È vero, quando erano concesse in serie e supplivano a un mancato provvedimento d'indulto. E tutto si svolgeva in modo opaco e senza garanzie procedurali di sorta, con un presidente sempre con la penna in mano chiamato a firmare quanto deciso da altri. La sentenza della Corte ha segnato uno spartiacque tra un «prima» e un «dopo». Il cambio di registro si vede già dalle cifre: per dire, Einaudi concesse 15.578 grazie, Leone 7.498, Pertini 6.095, Cossiga 1.395; Napolitano, il primo presidente a dover fare i conti con la sentenza costituzionale, ne ha finora concesse, non a caso, una ventina.

Tra queste, nessuna è qualificabile come atto politico di clemenza?
La regola fissata in Costituzione è stata seguita fedelmente dal presidente Napolitano. Fino al suo ultimo atto di grazia, concessa il 5 aprile scorso, al generale statunitense Joseph L. Romano, condannato in via definitiva per aver concorso in Italia al rapimento dell'iman Abu Omar, deportato e torturato in Egitto. Leggendone le motivazioni, si è trattato di un atto dettato da ragioni di politica estera. Proprio per ciò è da dubitare della sua regolarità costituzionale. E ciò che non è regolare non è un precedente valido su cui è lecito costruire una prassi. In tal senso, trovo opportuno che il Quirinale, nella sua nota, torni a richiamare espressamente le norme di legge, la giurisprudenza e le consuetudini costituzionali in materia, dalle quali - cito - «il Capo dello Stato non può prescindere».

Ma se il potere di dare la grazia è presidenziale, chi controlla la regolarità del suo atto di clemenza?
Per Costituzione, tutti gli atti del presidente vanno controfirmati, a pena d'invalidità, anche la grazia. È il ministro di giustizia che, controfirmandola, ne attesta la regolarità. Non si tratta di un atto dovuto: se la grazia ha finalità politiche (e non umanitarie) la controfirma va negata, a tutela delle prerogative governative. Non facendolo, il Guardasigilli risponderà politicamente davanti al parlamento, e con lui il governo di cui fa parte.

Dunque se in futuro prendesse forma un atto di clemenza per Berlusconi...

La Guardasigilli Cancellieri e il governo Letta non potrebbero chiamarsi fuori. Un bel cortocircuito istituzionale: la nota del Quirinale risponde ad una preoccupazione fondamentale di stabilità del quadro politico e di rispetto della separazione tra poteri. Eppure, prefigurando la possibilità di un atto di clemenza, squisitamente politica, rischia di mettere in serie difficoltà non solo la magistratura, ma pure l'esecutivo.

Un'eventuale grazia a Berlusconi inciderebbe anche sulla pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici?
Questo è un altro punto molto delicato, perché prefigura la possibilità che un soggetto, interdetto da una sentenza e da una decisione del senato giuridicamente obbligata, venga politicamente riabilitato dalla grazia presidenziale. È un ulteriore prova che ci si sta muovendo fuori dal perimetro costituzionale di una clemenza umanitaria. Segnalo che la nota del Quirinale circoscrive espressamente gli effetti dell'eventuale grazia «sull'esecuzione della pena principale». È una scelta che rientra nelle prerogative presidenziali. In passato lo stesso Napolitano ha, invece, concesso provvedimenti di clemenza riguardanti esclusivamente la pena accessoria, ma solo perché quella principale era già stata espiata o dichiarata prescritta: condizioni in cui non si trova Berlusconi.

Rispetto ai precedenti richiamati dal Quirinale, come incide il fatto che Berlusconi non ha ancora iniziato a scontare la pena e che su di lui pendono altri processi ed altre condanne?
Incide molto. Prima di ogni decisione sulla concessione della grazia vengono sempre svolti rigorosi accertamenti circa il periodo di pena espiato, l'assenza di pericolosità del condannato, gli esiti del processo rieducativo, la condotta tenuta in detenzione. Aggiungo che, secondo il Quirinale, la grazia non può essere concessa a ridosso dalla sentenza definitiva di condanna, perché non è un quarto grado di giudizio. E il presidente Napolitano ha sempre espresso contrarietà a graziare condannati per reati di particolare gravità (e frode fiscale, concussione per costrizione e prostituzione minorile lo sono).

Esclusa, dunque, la praticabilità costituzionale della grazia, l'alternativa della commutazione della pena è meno problematica?
Commutare le pene detentive in pecuniarie è prerogativa del Quirinale, concessa nel «caso Sallusti», evocato in questi giorni. Impropriamente: la condanna di un direttore di giornale per omesso controllo sul contenuto di un articolo assomiglia a una responsabilità oggettiva. La pena detentiva sarebbe stata, dunque, priva del suo scopo rieducativo. da qui la sua giustificata commutazione. Nessuna analogia, dunque, con il caso Berlusconi.

Dunque il problema della «agibilità politica» del Cavaliere non si risolve al Quirinale?
No, se il principio di legalità ha ancora cittadinanza in questo paese. Dove esiste un problema di giustizia negata e di pene che le condizioni delle carceri commutano in trattamenti inumani e degradanti, per i quali l'Italia è condannata dalla Corte di Strasburgo. Ripetutamente, come un criminale recidivo. Entro il 28 maggio 2014 siamo condannati a risolvere un sovraffollamento carcerario «strutturale e sistemico». Invece di cercare salvacondotti ad personam, perché non ragionare di un provvedimento di clemenza collettiva per la Repubblica e la sua legalità costituzionale?

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