La Repubblica, 29 dicembre 2013
Nel giro di qualche ora ha ricevuto centinaia di messaggi offensivi, tra cui una trentina di questo tipo: «Era meglio se morivi a 9 anni brutta imbecille, io sperimenterei su persone come te»; oppure: «Se per darti un anno di vita sono morti anche solo 3 topi, per me potevi morire pure a 2 anni». Penso sia lecito chiedersi dove siamo finiti e che ne sia ormai della solidarietà umana.
Come Caterina Simonsen, anch’io ho scelto di non mangiare più carne, è una scelta che mi fa sentire solidale con la vita, che reputo sacra in ogni sua manifestazione, umana e animale. Anzi, penso che la vita sia sacra già a livello vegetale e che di per sé non si dovrebbero mangiare neppure le patate e le cipolle che sono tuberi e possono generare vita, e infatti i monaci giainisti non le mangiano cibandosi solo di frutti. Ma non basta, occorrerebbe chiedersi se un albero voglia darci i suoi frutti, che non ha certo prodotto per noi, e se raccoglierli non implichi una forma di violenza, per lo meno di quella legata al furto. Non a caso Gandhi scriveva che «il consumo dei vegetali implica violenza», aggiungendo però subito dopo: «Ma trovo che non posso rinunciarvi ». Da qui il profeta della non-violenza concludeva che «la violenza è una necessità connaturata alla vita corporea ». La nostra vita, in altri termini, per esistere si deve nutrire di altra vita che deve necessariamente sopprimere. Per questo nessuno è innocente e nessuno è in grado di stabilire con certezza dove si debba attestare il rispetto per la vita.
Tale conclusione sull’alimentazione vale anche per la cura medica: anche qui c’è un’inevitabile dose di violenza, come mostra già il nostro sistema immunitario del tutto simile a un esercito di professionisti senza scrupoli. Si potrebbe obiettare che i batteri eliminati dai globuli bianchi e le cavie su cui viene condotta la sperimentazione nei laboratori non sono la stessa cosa perché i primi sono aggressori e gli altri no, ma io penso che anche i batteri che entrano nel nostro corpo siano innocenti perché fanno solo il loro mestiere senza nessuna intenzione di aggredirci. In realtà la violenza è intrinseca in ogni sistema di difesa: se vuole continuare a vivere, nessun vivente può uscire indenne dalla catena di violenza di cui è impastata la vita, e per questo nessuno ha il diritto di tirare la prima pietra condannando chi mangia carne o chi sostiene la ricerca mediante sperimentazione animale.
Tuttavia dalla catena di violenza di cui è intrisa la vita alcuni esseri umani desiderano emanciparsi, e questo è un nobile ideale che a mio avviso va sostenuto. Nessun altro essere vivente può concepire tale emancipazione, solamente l’uomo lo può, mostrando in questo di essere ben al di là della vita animale. Sto dicendo che gli animalisti, con il loro sostenere un comportamento del tutto privo di violenza verso gli animali e con il loro volere per gli animali gli stessi diritti dell’uomo, mettono in atto un comportamento che li distanzia al massimo dal mondo animale. Nessun animale carnivoro infatti cesserà mai di mangiare carne, nessun animale erbivoro deciderà mai di astenersi dai bulbi e dai tuberi, nessuna specie animale estenderà mai alle altre specie i diritti di supremazia che la natura lungo la sequenza della selezione naturale le ha concesso. A parte quella umana, nessuna specie cesserà mai di seguire l’istinto sotto cui è nata. L’uomo al contrario ha imparato a poco a poco a estendere gli ideali di giustizia a tutti gli esseri umani, compresi quelli dalla pelle diversa, e oggi alcune avanguardie stanno lottando per allargare tali ideali ad altri esseri viventi. Tutto ciò, esattamente al contrario del naturalismo professato da alcuni animalisti, mostra in modo lampante lo iato esistente tra Homo sapiens e gli altri viventi. Se gli esseri umani lottano per estendere agli animali gli stessi diritti dell’uomo non è quindi perché non c’è differenza tra vita umana e vita animale, ma esattamente al contrario perché tra le due vi è una differenza qualitativamente infinita.
Ponendosi in tale prospettiva di estensione degli ideali di non-violenza anche al mondo animale, Gandhi scriveva: «Aborrisco la vivisezione con tutta la mia anima. Detesto l’imperdonabile macello di vita innocente nel nome della scienza e della cosiddetta umanità, e considero del tutto prive di valore le scoperte scientifiche macchiate di sangue innocente». Per questo, al di là delle ignobili offese a Caterina Simonsen che meritano solo l’oblio, io ritengo che nella campagna animalista contro la sperimentazione sugli animali vi sia qualcosa di importante. Si tratta dell’appello a estendere a tutti i viventi l’imperativo categorico della vita etica, formulato da Kant alla fine del Settecento solo in prospettiva antropocentrica: «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre come fine e mai solo come mezzo». Oggi si tratta di giungere a trattare «sempre come fine e mai solo come mezzo» non solo l’umanità, ma, per quanto è possibile, tutto ciò che vive: gli animali, le piante, i mari, le montagne, il pianeta, il cosmo… tutto dovrebbe essere visto in una prospettiva non utilitaristica ma vorrei dire
contemplativa,in cui si contempla la natura delle cose rispettandole per quello che sono e cessando di calcolare solo l’utile che ne viene a noi, per una filosofia ecologica di cui il nostro tempo e il nostro spazio hanno urgente bisogno.
Attenzione però alla saggezza del grande filosofo: dicendo «mai solo come mezzo», Kant ricordava che un elemento di strumentalità è sempre connaturato al vivere, nel senso che ognuno di noi in alcune circostanze è anche un mezzo per la vita degli altri. Ciò ci dovrebbe portare a quel saggio equilibrio del cuore e della mente che mette al riparo da ogni radicalismo fanatico e che porta ad appoggiare la liceità etica della sperimentazione animale laddove davvero non vi sia altra possibilità per sconfiggere le malattie degli uomini e degli stessi animali.