Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2016 (p.d.)
La mafia è una società di servizi alla quale le aziende del nord fanno fatica a rinunciare, specie in tempo di crisi. Le aziende sporche entrano in contatto con realtà imprenditoriali apparentemente pulite per far quadrare il fatturato, con emissioni di fatture false e fondi neri, eventuale recupero crediti e, per abbattere i costi, specializzandosi in attività altrimenti particolarmente onerose, come lo smaltimento dei rifiuti pericolosi (ricavi per 19,6 miliardi di euro). È un abbraccio cercato e voluto, che si conclude quasi sempre nel consegnare l’azienda nelle mani delle associazioni criminali.
A Reggio Emilia, dove si tiene uno dei più grossi processi di mafia del Nord, addirittura gli imprenditori indebitati con le cosche negano l’evidenza di alcune intercettazioni telefoniche, dalle quali emergono esplicite minacce di morte subìte. “Toni amichevoli”, precisa l’imputato , un po’ come Silvio Berlusconi dopo l’attentato mafioso alla sede Fininvest del 28 novembre 1986. Ipotizza sia stato il suo “stalliere”, Vittorio Mangano, ma con l’amico Dell’Utri sottolinea: “una cosa fatta con molto rispetto, quasi con affetto”. Si trattava di una bomba.
Se il traffico degli affari “leciti” tracciabili della sola 'ndrangheta è sopra i 53 miliardi di euro l'anno, significa che sotto ce ne sono almeno il doppio in nero. Un volume che tira su il Pil nazionale di 3,5 punti percentuale. Un'azienda capace di trattare armi, droga, frutta, verdura, fiori, movimento terra, sfruttamento della manodopera clandestina e ogni altro business appetibile per la 'ndrangheta Spa.
Da vocabolario il termine “infiltrazione”, rimanda a un “passaggio lento e continuo, consentito dalla permeabilità o dalla scarsa capacità di tenuta” delle condutture, in caso di liquidi. In questo caso la scarsa capacità di tenuta è della società che ha permesso e accettato di fare affari con la criminalità organizzata. Lo ha detto il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, intervistato da Lilli Gruber: “Nell'arco di 5 anni si potrebbero abbattere le mafie del 70%, ma non ci sono i numeri in Parlamento per risolvere il problema, perché il potere non vuole essere controllato”.
Ecco perché parlare di “infiltrazioni” è un’ipocrisia. Dovremmo chiamarle scelte, opportunità, presenze radicate, per restituire all’opinione pubblica, e alla politica, una rappresentazione della realtà più fedele possibile. Mentre le mafie negli anni sono cresciute, il Paese continua a fronteggiarle con gli stessi metodi dei tempi di coppole e lupare. Abbiamo bisogno di strumenti normativi adeguati, di polizie specializzate, che possano mettere sotto la lente le amministrazioni pubbliche e private e anche di una magistratura più esperta. Un lessico onesto renderebbe il dibattito più costruttivo. Per dirla con Thomas Reid, “non esiste più grande impedimento per l’avanzare della conoscenza che l’ambiguità delle parole”.