Il libero commercio è stato un principio cardine dell’economia nei primi anni di questa disciplina. Sì, vincitori e perdenti esistono, diceva la teoria, ma i vincitori possono sempre risarcire i perdenti, così che il libero commercio (o perfino un commercio più libero) sia una soluzione vantaggiosa per tutti. Questa conclusione, purtroppo, si basa su numerosi presupposti, molti dei quali sono semplicemente sbagliati. Teorie più vecchie, per esempio, ignoravano il rischio e presumevano che i lavoratori potessero passare senza problemi da un posto di lavoro all’altro. Si presumeva anche che l’economia fosse alla piena occupazione, così che i lavoratori spostati dalla globalizzazione si sarebbero rapidamente mossi da settori a bassa produttività a settori a più alta produttività.
Quando però c’è un alto livello di disoccupazione, e a maggior ragione quando una consistente percentuale di disoccupati è rimasta priva di lavoro a lungo (come accade adesso), una simile compiacenza non ci può essere. Oggi sono venti milioni gli americani che vorrebbero trovare un posto a tempo pieno ma non ci riescono. In milioni hanno smesso di cercarlo. Di conseguenza, c’è un rischio concreto che il personale spostato in un settore protetto da un posto di lavoro a bassa produttività di fatto finisca coll’entrare nelle lunghe file dei disoccupati a produttività zero. Questo fenomeno nuoce perfino a chi riesce a mantenere il proprio posto di lavoro, dato che la maggiore disoccupazione aumenta al ribasso la pressione sui salari.
Possiamo anche metterci a discutere sul motivo per il quale la nostra economia non è performante come si crede che debba essere — se ciò dipende da una mancanza di domanda aggregata o se avviene perché le nostre banche, più interessate alla speculazione e alla manipolazione dei mercati che al prestito, non stanno garantendo gli adeguati finanziamenti alle piccole e medie imprese.
A prescindere dalle cause, però, la realtà è che questi accordi commerciali rischiano di aumentare la disoccupazione. Una delle cause per le quali siamo in questa brutta situazione è che abbiamo gestito male la globalizzazione. Le nostre politiche economiche incoraggiano l’esternalizzazione, l’outsourcing dei posti di lavoro, e le merci prodotte all’estero con manodopera a basso costo possono essere riportate con poca spesa negli Stati Uniti. Così, i lavoratori americani capiscono di dover competere con quelli all’estero, e il loro potere contrattuale è indebolito. Per questo motivo fondamentale il reddito medio reale dei lavoratori di sesso maschile con un posto di lavoro a tempo pieno è inferiore rispetto a quello di 40 anni fa. La politica americana odierna aggrava questi problemi.
Mettendosi alla guida di una protesta a tutto campo contro l’ente responsabile del Tpp, Harry Reid, leader della maggioranza del Senato, sembra averci dato una piccola tregua. Sembra anche che a vincere questa scaramuccia siano stati coloro che pensano che gli accordi commerciali arricchiscano le multinazionali a spese del 99 per cento. Di fatto, invece, è in corso una guerra molto più estesa per garantire che le politiche commerciali — e la globalizzazione più in generale — siano strutturate in modo tale da migliorare gli standard di vita della maggior parte degli americani.