il manifesto, 22 novembre 2016 (c.m.c.)
La recente vittoria di Trump è anche un caso di studio per tanti aspetti illuminante. Pur nelle sue ambiguità e contraddizioni, il successo di questo personaggio eterodosso ci parla innanzi tutto di noi, delle nostre modeste capacità di lettura della società americana e del capitalismo dei nostri anni. Non si tratta dell’incapacità previsionale del risultato elettorale, che ha riguardato quasi tutti gli istituti demoscopici, ma del conformismo politico, della cecità moderata con cui non solo i gruppi di centrodestra, ma anche la sinistra tradizionale ha guardato agli Usa negli ultimi anni.
La sconfitta della Clinton ha il merito di mostrare innanzi tutto ciò che era evidente agli osservatori non accecati dai miti. Il bipartitismo del sistema politico americano è da tempo la più colossale finzione della democrazia rappresentativa della nostra epoca. Come aveva denunciato, tra tanti altri, il giornalista britannico Will Hutton, nel brillante quadro comparativo Europa vs USA.
Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società è più equa (Fazi 2003), da tempo il Partito democratico e quello repubblicano conducono la stessa politica di centro. Considerati i costi altissimi delle campagne elettorali americane, Hutton mostrava come la raccolta dei fondi da parte dei candidati dei due partiti finisse col legare il loro successo ai finanziamenti da parte del potere economico. Annacquando le pretese riformatrici del Partito democratico e integrando nell’establishment politico-economico-finanziario-militare che da decenni costituisce un unico blocco alla guida degli Usa.
Al posto della competizione si è creato un monopolio politico. Un monopolio che neppure Obama ha scalfito più di tanto. E milioni di cittadini americani lo hanno da tempo certificato disertando le urne.
Per questo quando Walter Veltroni e i suoi compagni fondarono il Partito democratico si ispiravano a una esperienza storica ormai esaurita. Hanno inseguito e raggiunto un treno finito in un binario morto. Un abbaglio non casuale, anzi rivelatore dell’incapacità di quella sinistra di afferrare ciò che stava accadendo nel corpo profondo del capitalismo contemporaneo. Così Veltroni dichiarava di non essere stato mai comunista prendendo le distanze da un rapporto privilegiato con la classe operaia. Rapporto fondativo del Pci e condizione imprescindibile per la comprensione dei fenomeni sociali.
Infatti se ci si nega l’analisi di ciò che accade al lavoro non si comprende nulla delle trasformazioni in atto nelle società. Come tanti osservatori non solo italiani, i novatori del nostro sistema politico non capirono quel che stava accadendo ai lavoratori americani. Non soltanto i jobs, anche i più qualificati, sono diventati precari, permanently temporary, permanentemente temporanei, secondo uno splendido ossimoro.
Ma una massa considerevole di operai sopra i 55 anni fu espulsa da fabbriche e servizi con le ristrutturazioni degli anni’90. La giornata del lavoro si è pesantemente allungata: «Neppure la maggioranza degli schiavi nel mondo antico – denunciò lo storico B.Hunnicutt – e i servi durante il medioevo lavoravano così duramente, cosi’ regolarmente, e così a lungo come noi» (Take back your time, 2003).
Ai primi del nuovo millennio i lavoratori americani lavoravano in media 200 ore in più all’anno rispetto ai due-tre decenni precedenti. Tutto questo ben prima della grande crisi del 2008. In realtà da tempo, chi aveva occhi per guardare, poteva scorgere l’ attacco che non solo negli Usa, ma su scala mondiale, veniva mosso al lavoro umano in tutte le sue molteplici espressioni sociali.
L’incapacità di comprendere ciò che accadeva e accade alla classe operaia americana, componente fondamentale della middle class, è diventata cronica anche negli anni di «uscita» dalla crisi. I rassicuranti bollettini riportati dalla grande stampa sul Pil che «torna a crescere» e sulla «disoccupazione ai minimi», nasconde la stagnazione dei redditi popolari, l’indebitamento crescente delle famiglie, la precarietà del lavoro e il suo sfruttamento intensivo, le disuguaglianze vertiginose, la fine della mobilità sociale. Non poteva durare la struttura del sistema politico a fronte della distruzione del blocco sociale che lo aveva fin qui sostenuto.
La vittoria di Trump è la paradossale rottura di un sistema che doveva avvenire per mano di Bernie Sanders. È evidente che i Democratici americani e quelli del Pd, sono, a vario titolo, agenti essi stessi della crisi della democrazia rappresentativa del nostro tempo. Puntare sulle cosiddette riforme, cioè sulla trasformazione del sistema politico, è un surrogato rispetto alla necessità di sanare le disuguaglianze, ridare centralità al mondo del lavoro. Il resto lo fa la sinistra radicale, capace di leggere i fenomeni, ma dispersa e divisa e perciò impotente.