Le minacce militari della Nato, degli USA e dell'Unione europea alla Russia prolungano un secolo di conflitti cruenti, che all'interno del Primo mondo ci si illudeva fossero stati superati. il manifesto, 4 maggio 2014
La guerra fredda ha avuto anche passaggi caldi, per lo più fuori dell’Europa. In Europa, dove correva la cortina di ferro, il «confine» per eccellenza, mai varcato dal 1945 in poi, la guerra fu combattuta e vinta dall’Occidente con i mezzi virtuali del soft power.
Il teorema di Fukuyama sulla «fine della storia» è stato oggetto di critiche e scherni ma stando allo scenario europeo – lo stesso in cui Hobsbawm colloca il suo «secolo breve» – allora si concluse effettivamente l’epopea del conflitto di classe, fra capitale e lavoro, legata alla rottura del 1917 e alle vicende dell’Urss come espressione delle forze anti-sistema.
La storia come dialettica fra una tesi e un’antitesi sarebbe ovviamente continuata, ma nel più vasto teatro dell’extra-Europa, all’insegna dello scontro nazionale fra l’egemonismo del Centro e l’autodeterminazione dei popoli della Periferia passati attraverso la soggezione al colonialismo e all’universalismo eurocentrico. Non per niente, appena chiusa la partita con l’Urss in corso dalla Conferenza di Jalta, il vecchio Bush spostò l’apparato militare e retorico degli Stati Uniti da Est a Sud. Il destino ha voluto che la Crimea sia ritornata d’attualità. È così che il «secolo breve» ha trovato un secondo o terzo tempo. È stato persino rispolverato il distico Est-Ovest sebbene, ammesso di saper dare una fisionomia all’Ovest, l’Est o non esiste più o si riduce alla Russia. Tanto vale dunque chiamare l’Est con il suo nome e cognome e aggiornare l’analisi e la strategia a una competizione che non ha nulla a che vedere con l’ideologia, la libertà del mercato, il bene o il male, ma problematiche prettamente geopolitiche.
Diventa così ancora meno comprensibile – la geopolitica per definizione ha come moventi più gli interessi che i valori – l’accanimento preconcetto contro l’«imperialismo» russo. Il pur blando, argomentatissimo «anti-americanismo» di Sergio Romano, che ha osato paragonare i missili russi a Cuba con i missili americani in Estonia e chissà in Ucraina, è apparso insopportabile al recensore e censore sul suo stesso Corriere.
L’Ucraina appartiene da quando esiste alla sfera di influenza e civilizzazione russa (escludendo al più la regione cattolica al confine con la Polonia). L’espansione verso est della Nato, e con effetti meno destabilizzanti dell’Unione europea, ha superato ogni limite di prudenza e ragionevolezza, mettendo in pericolo la «sicurezza» della Russia man mano che i toni del contrasto hanno preso il posto della semi-concordia dell’immediato post-1989. I sistemi anti-missili messi in cantiere da Bush jr e ripresi da Obama con sede nell’Europa orientale, formalmente orientati contro l’Iran e il terrorismo, hanno riproposto la stessa fattispecie che ai tempi di Reagan si materializzò nello «scudo stellare». Il paradosso della deterrenza, si sa, rende più minacciose le armi difensive di quelle offensive.
Messa di fronte al pericolo di perdere il controllo del suo «estero vicino», la Russia, che per debolezza aveva detto addio al vallo costruito nell’Europa centro-orientale e aveva subito il ridimensionamento della Serbia, ha commesso una serie di violazioni dell’ordine internazionale. Prima in Georgia e ora in Ucraina. Se Mosca ha tradito l’impegno a non toccare l’integrità dell’Ucraina, a Ovest ci si è dimenticati di qualche parola data al momento della riunificazione della Germania.
Sarebbe troppo facile e comunque sterile rinfacciarsi i propri Iraq e Afghanistan. Al di là e al di qua di cosa del resto se i muri sono caduti fra canti e suoni? Non basta opporre che «chi di rivolta ferisce di rivolta perisce», anche se è vero che i movimenti «arancione» sono stati utilizzati come Reagan impiegò i contras. Il merito dei Brics e della stessa Russia era la difesa della legalità, almeno a livello mondiale, ed è stato molto più di un errore discostarsi da quella premessa, che non era solo una clausola di stile. Già la secessione della Crimea ha messo in imbarazzo i compagni di cordata di Mosca. Molti paesi, a cominciare dai Brics, hanno qualche regione che potrebbe essere oggetto di manovre volte a fomentare irredentismi o separatismi.
Se l’India o la Cina non si sono opposte direttamente a Putin è stato solo per i rancori accumulatisi in questi anni nei confronti dell’«interventismo» degli occidentali qua e là per il mondo con effetti catastrofici per la stabilità e l’equilibrio generale. Comunque giustificate, quattro guerre in Africa nello spazio di tre anni fra il 2011 e il 2014 istigare dalla Francia – prima Sarkozy e poi Hollande, senza apparenti differenze fra conservatori e socialisti – danno come prodotto una media da espansione coloniale più che neo-coloniale.
Il rispetto per la legalità premiò Mosca in occasione del minacciato raid di Obama contro Assad nell’estate del 2013. Fu il più grande successo del criticatissimo Putin, che aveva in mente e nel cuore i sentimenti nazionali o nazionalisti della Grande Russia ai fini del consenso interno ma che intanto invocava il diritto e rimetteva in gioco l’Onu al di là della solita pochezza del pallido Ban Ki-moon. Per la prima volta la Russia toccò le corde dell’opinione pubblica mondiale in senso positivo facendo veramente concorrenza agli Usa sul loro terreno.
Un articolo dello stesso Putin fu pubblicato sul New York Times. Il papa indisse una giornata di preghiera multi-confessionale per la pace. Per Obama, già messo sulla graticola dal Congresso, fu una disfatta e un’umiliazione. Non meraviglia se da allora in poi il presidente americano è andato alla ricerca – o alla costruzione – di un incidente che rinchiudesse di nuovo la Russia nel recinto dei «cattivi». Non è neanche il caso di far notare – perché troppo evidente a chi ha occhi per vedere o leggere – l’anomalia delle sanzioni contro la Russia o l’esclusione dal G8 per l’Ucraina a confronto dell’impunità garantita a Usa e alleati per l’invasione o il bombardamento di una mezza dozzina di paesi sparsi fra i Balcani e il Grande Medio Oriente ma anche fra Mediterraneo, Corno d’Africa e penisola arabica.
Solo Israele può invocare come Putin una condizione di «contiguità» per tentare di giustificare le prevaricazioni con la geopolitica. Ci deve essere un motivo se le leggi omofobiche in Russia suscitano più scandalo del Patriot Act o di Guantanamo. Un punto di forza dell’Occidente è sicuramente la capacità di riconoscere – col tempo o nella contestualità delle voci critiche – i massacri che commette o ha commesso senza venir meno alla normalità costituzionale. Non è solo colpa degli Usa se l’Onu è impotente. Il fronte di chi si oppone allo strapotere americano è diviso e non possiede la credibilità necessaria a rompere l’omertà di chi in qualche modo ne beneficia.
Il pregiudizio occidentale secondo cui solo l’intervento di una potenza «civilizzata» può risolvere le crisi, come in Africa, deve essere smentito con i fatti sul campo. Può essere penoso riprendere il gergo della modernizzazione occidentalista, ma sostenere e promuovere la democrazia e i diritti umani, senza legarli alla sorte dell’Occidente, aiuterebbe a superare le gerarchie e alla fine può svelare le ipocrisie e i lati oscuri del potere dominante