il manifesto, 13 dicembre 2016 (c.m.c.)
Lo spettacolo è francamente inguardabile, a una settimana dal voto che ha travolto Matteo Renzi e il suo governo. Intendo lo spettacolo pubblico, recitato «in alto» dall’intero establishment. Il modo con cui nasce il governo Gentiloni, le procedure del suo incarico (con le cosiddette consultazioni parallele tra il Colle e Palazzo Chigi, cose mai viste!). E poi la sua composizione (fotocopia)
Sono un insulto al voto degli italiani, al principio di realtà, alla stessa Costituzione miracolosamente salvata il 4 dicembre: al suo articolo 1 naturalmente, e al meno noto articolo 54 (che impone, per le funzioni pubbliche «il dovere di adempierle con disciplina ed onore», cioè accettando i verdetti popolari e rispettando verità e parola data). Che a Palazzo Chigi sieda un «uomo di Renzi», che il governo Renzi succeda a se stesso nella maggior parte dei suoi membri, soprattutto che Matteo Renzi continui a detenerne la golden share mantenendo la segreteria del Partito e di lì accanendosi a inquinare la vita politica, dopo aver dichiarato che in caso di sconfitta si sarebbe ritirato da tutto, è un danno d’immagine devastante non solo per lui e il suo partito, ma per l’intero Paese.
Sembra fatto apposta per confermare la peggiore immagine degli italiani, furbeschi e infingardi. Non un buon viatico per le nostre banche e i nostri conti. In fondo David Cameron, che pure non era un granché, è sparito dalla scena dopo la Brexit (perduta peraltro per un soffio), e con lui i suoi uomini più fedeli, altro che Lotti ministro (con delega all’editoria) e Maria Elena più che mai in sella! Diverso il quadro «in basso».
Il voto – quel NO urlato nelle urne – comunica un messaggio politico potentissimo. Parla alla politica con il linguaggio duro dei cataclismi naturali.
E lo fa anche, e soprattutto, perché ha, alla sua radice, un fortissimo, durissimo, connotato sociale. Lo dicono tutte le analisi dei flussi: la mappa del NO ricalca, fedelmente, la mappa del disagio. Anzi, dei disagi: sociale, generazionale, di genere, territoriale. Il No cresce, esponenzialmente, col diminuire del reddito disponibile, coll’aumentare della disoccupazione, in particolare di quella giovanile, con il passaggio dai centri alle periferie delle grandi città, e naturalmente con l’esplosione del Sud.
Si potrebbe dire che il populismo dall’alto renziano – la sua baricchesca narrazione – si è schiantato contro un popolo impastato di realtà. E di sofferenza, materiale ed esistenziale. È stato, quel voto che in tanti vorrebbero mettere in soffitta, una gigantesca porta sbattuta in faccia a tutti gli establishment, nazionali ed esteri.
Si potrebbe dire che non è cosa nuova. Che già il voto inglese, e in parte quello americano, avevano alla radice quello stesso reticolo di rabbia sociale, malessere, impoverimento e risentimento dei fargotten contro le rispettive élites. Ma per l’Italia vale un dato diverso, e originale. Qui è avvenuto il «miracolo» per cui quella rabbia e quel disagio hanno trovato, come punto di convergenza e comun denominatore, la Costituzione.
La Costituzione democratica, egualitaria e antifascista intorno a cui hanno dovuto raggrupparsi tutti, anche quelli che, per appartenenza politica, starebbero da un’altra parte. Non è poco. Anzi, direi che è (quasi) tutto. Significa che le parti dolenti della nostra società, i settori più fragili e più provati, il mondo del lavoro, i ceti medi impoveriti, quelli che stanno fuori dalle narrative di potere, sentono la Carta Costituzionale come «loro»: un ombrello e una protezione sotto cui ripararsi. Per questo credo si possa dire che, per le dimensioni della partecipazione e per il segno inequivoco del responso, il Referendum costituzionale del 4 dicembre assume carattere «costituente».
Costituente all’interno, nei confronti della politica italiana, perché dice forte e chiaro che nessuno deve più azzardarsi a tentare di manomettere la nostra Costituzione e di deformarne forma di governo e sistemi di garanzie istituzionali. E costituente verso l’esterno, verso l’Europa in primis, perché dice che non sono più ammissibili intromissioni volte a stravolgere l’assetto istituzionale del Paese, a ledere i diritti costituzionalmente garantiti e a limitare o deformare il principio di rappresentanza. Non si tratta di adeguare la Costituzione italiana ai trattati internazionali, ma di riconoscere solo quei trattati che ne rispettano le linee guida.
Costituente, in fondo, anche, nel nostro piccolo, per noi. «Abbiamo difeso la Costituzione, adesso imponiamo di attuarla!». Questo potrebbe essere il programma comune di quella ampia, variegata, creativa area che su un versante radicalmente democratico si è battuta per il NO. La premessa per trasformarla nell’embrione di una proposta di rappresentanza elettorale.
Ma non nascondiamocelo: è un’impresa impegnativa. Che richiederà molti passi indietro e ancor più passi avanti. Perché non è cosa da frammenti di vecchie identità infrante. Richiederà soprattutto la necessità di assumere una logica da «anno zero». Nuovi linguaggi, nuove pratiche, nuove forme di ascolto di un sociale diventato indecifrabile per le consuete culture politiche: un esodo dalle macerie avendo però, come ragione, finalmente una vittoria.
Tutto, ma davvero tutto, si è consumato, compresa quell’ombra lunga di centro sinistra cui ancora molti superstiti sembrano guardare (e che con l’estremo endorsement di Prodi si è definitivamente inabissato); compresa la patetica nostalgia di Giuliano Pisapia per un Pd che non c’è più come se lì, dopo il bagno renziano, non si fosse consumata una vera mutazione antropologica… Il campo è aperto. La geografia del voto lo mostra in tutta la sua estensione e asperità. Chi avrà il coraggio di incominciare a esplorarlo ne sarà premiato.