loader
menu
© 2024 Eddyburg
Antonio Negri
La metafisica del comune
6 Maggio 2014
Articoli del 2014
Una critica convincente a una «visione idealistica» di una parola ("comune") fondamentale per costruire un futuro umano. Il libro di Pierre Dar­dot e Chri­stian Laval su Prudhon è «una vera e pro­pria liqui­da­zione del mate­ria­li­smo sto­rico, della cri­tica mar­xi­sta dell’economia poli­tica del capi­ta­li­smo maturo, in nome di un nuovo "prin­ci­pio"».
Una critica convincente a una «visione idealistica» di una parola ("comune") fondamentale per costruire un futuro umano. Il libro di Pierre Dar­dot e Chri­stian Laval su Prudhon è «una vera e pro­pria liqui­da­zione del mate­ria­li­smo sto­rico, della cri­tica mar­xi­sta dell’economia poli­tica del capi­ta­li­smo maturo, in nome di un nuovo "prin­ci­pio"».

Il manifesto, 6 maggio 2014

Dopo Marx. Pré­nom : Karl, Pierre Dar­dot e Chri­stian Laval ci offrono un Prou­d­hon. Pré­nom : Pierre-Joseph. In Ita­lia, que­sto finto titolo baste­rebbe a liqui­dare il libro, ricor­de­rebbe l’operazione rea­zio­na­ria con­dotta, fra gli altri da Pel­li­cani e Coen su Mondo Ope­raio negli anni Set­tanta, su ispi­ra­zione di Craxi. Ma que­sto libro non sta certo da quella parte, esso intro­duce in Fran­cia, e ria­pre – spe­riamo – in Europa, il dibat­tito sul «comune». Tor­niamo dun­que al libro.

Men­tre il Marx era carat­te­riz­zato da una riso­luta «de-teleologizzazione» del socia­li­smo (vale a dire da una ragio­nata cri­tica di ogni teo­ria socia­li­sta che volesse incap­su­lare nello svi­luppo capi­ta­li­sta il pro­getto finale e la forza della libe­ra­zione comu­ni­sta), que­sto secondo libro (Com­mun. Essai sur la révo­lu­tion au XXIe siè­cle, La Décou­verte, pp. 593, euro 25) è carat­te­riz­zato da una riso­luta «de-materializzazione» del con­cetto di socia­li­smo — tale è l’operazione svi­lup­pata in que­sto «Sag­gio sulla rivo­lu­zione»: una vera e pro­pria liqui­da­zione del mate­ria­li­smo sto­rico, della cri­tica mar­xi­sta dell’economia poli­tica del capi­ta­li­smo maturo, in nome di un nuovo «prin­ci­pio». «Comune»: non com­mons, non «il» comune, ma «comune» come prin­ci­pio che anima sia l’attività col­let­tiva degli indi­vi­dui nella costru­zione di ric­chezza e della vita, sia l’autogoverno di que­ste attività.

Un pre­ciso qua­dro ideale viene pre­sen­tato e discusso a que­sto scopo – esso parte «dalla prio­rità del comune come prin­ci­pio di tra­sfor­ma­zione del sociale, affer­mata prima di sta­bi­lire l’opposizione di un nuovo diritto d’uso al diritto di pro­prietà». Di seguito, si sta­bi­li­sce che «il comune è prin­ci­pio di libe­ra­zione del lavoro, poi che l’impresa comune e l’associazione deb­bono pre­va­lere nella sfera dell’economia». Si afferma inol­tre «la neces­sità di rifon­dare la demo­cra­zia sociale, così come il biso­gno di tra­sfor­mare i ser­vizi pub­blici in una vera isti­tu­zione del comune. Infine, è sta­bi­lita la neces­sità di for­mare dei comuni mon­diali e a que­sto fine di inven­tare una fede­ra­zione glo­bale dei comuni».

Una visione idealistica

Que­sta espli­ci­ta­zione poli­tica del prin­ci­pio del «comune» è pre­ce­duta da un lungo lavoro di ana­lisi cri­tica e costrut­tiva che si svi­luppa in due tempi. Un primo — «L’emergenza del comune» — con­si­ste nel rico­struire il con­te­sto sto­rico che ha visto affer­marsi il nuovo prin­ci­pio del comune e nel cri­ti­care i limiti delle con­ce­zioni che ne sono state date in que­sti ultimi anni, tanto da eco­no­mi­sti, filo­sofi e giu­ri­sti, quanto da mili­tanti. Una seconda parte — «Diritto e isti­tu­zione del comune» — vuole più diret­ta­mente rifon­dare il con­cetto del comune situan­dolo sul ter­reno del diritto e dell’istituzione. Il libro, che nasce dall’attraversamento di un semi­na­rio — «Du public au com­mun» (svi­lup­pa­tosi in maniera ampia e con­trad­dit­to­ria nel Col­lège Inter­na­tio­nal de Phi­lo­so­phie dal 2011 al 2013) – appro­fon­di­sce l’idea di comune rife­ren­dosi fon­da­men­tal­mente a quella cor­rente del «socia­li­smo asso­cia­zio­ni­sta» che da Prou­d­hon risale a Jean Jau­rès e a Maxim Leroy, e va poi fino a Mauss e Gur­vitch, e infine all’ultimo Casto­ria­dis (quello della «Insti­tu­tion ima­gi­naire du social») — senza mai sot­trarsi al ten­ta­tivo di assor­bire qual­che tratto del pen­siero mar­xiano den­tro que­sto svi­luppo «idea­li­stico» della pro­get­ta­zione di un socia­li­smo pros­simo ven­turo.

Svi­luppo idea­li­stico: non può esser diverso l’effetto pro­dotto dalla cri­tica e dalla rico­stru­zione del con­cetto di comune, ela­bo­rata in que­sto libro, per­ché, ripren­dendo Prou­d­hon con­tro Marx, alla cor­retta e sem­pre più effet­tiva rot­tura con ogni e qual­siasi telos del socia­li­smo, segue una non meno osses­siva sma­te­ria­liz­za­zione del con­cetto di capi­tale e del con­te­sto della lotta di classe – sic­ché, alla fine di que­sto libro, non si capi­sce più come il comune sia riven­di­cato, dove stiano i sog­getti che lo costrui­scono, quali siano le figure dello svi­luppo del capi­tale che ne costi­tui­scono lo sfondo.

Su que­sta scena idea­li­sta tira un gelido vento – un pes­si­mi­smo forte, quasi una ras­se­gnata con­sta­ta­zione che la pro­du­zione di sog­get­ti­vità da parte capi­ta­li­sta sia mate­rial­mente impla­ca­bile e sto­ri­ca­mente irre­si­sti­bile. Di fronte, stanno la sot­to­mis­sione dei lavo­ra­tori e l’interiorizzazione del comando, sem­pre più dura nell’epoca del capi­tale cogni­tivo – come vor­rebbe l’attuale scienza del mana­ge­ment e come testi­mo­nie­rebbe la nuova sof­fe­renza pro­vata dai lavo­ra­tori stessi (psi­co­lo­gia del lavoro adju­vante). Allora, «comune» che cos’è più? Una comu­nanza di sof­fe­renza? Oppure un dio che deve salvarci?

A mio parere, per riag­gan­ciare il con­cetto di «comune», occorre indub­bia­mente comin­ciare seguendo una via ana­loga a quella per­corsa da Dardot-Laval. La cri­tica che essi con­du­cono della nozione di «comune» nella figura teo­lo­gica, giu­ri­dica, eco­lo­gica – insomma in tutte le forme di oggettivazione/reificazione che si ripe­tono instan­ca­bil­mente a que­sto pro­po­sito – ed anche di quella filo­so­fica che tende a bana­liz­zare il «comune» nell’«universale» — è una giu­sta via. Un vero con­cetto di «comune» può darsi sola­mente come pro­dotto di una pra­xis poli­tica cosciente e quindi com­porsi in un pro­cesso isti­tuente, in un dispo­si­tivo di «isti­tu­zioni del comune». Il «comune» trova la sua ori­gine non in oggetti o con­di­zioni meta­fi­si­che ma solo in attività.

Oltre la tragedia dei commons
In que­sto qua­dro la cri­tica che Dardot-Laval con­du­cono della eco­lo­gia dei com­mons di Eli­nor Ostrom è indub­bia­mente magi­strale poi­ché ne chia­ri­sce la natura libe­rale e indi­vi­dua­li­stica – dove un sistema di norme è posto per far fronte alla «tra­ge­dia dei com­mons», per sal­va­guar­darne cioè l’accessibilità e la pre­ser­va­zione, da parte capi­ta­li­sta, in quanto sup­po­sti «beni natu­rali». Seguendo la via indi­cata da Dardot-Laval ci si trova tut­ta­via pre­sto davanti ad un bivio – che si apre quando si avverte che il comune non è sem­pli­ce­mente pro­dotto di atti­vità gene­rica (antro­po­lo­gica e socio­lo­gica) ma pro­dotto di atti­vità pro­dut­tiva. Qui il con­fronto con Marx diviene ine­vi­ta­bile e deci­sivo. Dardot-Laval sem­brano tut­ta­via essere tra­volti dalla com­ples­sità della que­stione. Da un lato infatti sono sospinti dalla loro ipo­tesi radi­cal­mente de-sostanzializzatrice (idea­li­sta?) del comune, a sot­to­va­lu­tare la stessa dimen­sione «sociale» del «comune» — anche di quella pro­po­sta da Prou­d­hon; dall’altro ad accu­sare i mar­xi­sti che hanno affron­tato il tema del «comune» (tenendo ben pre­sente la nuova figura «sociale» dello sfrut­ta­mento) di essere «incon­scia­mente» prou­d­ho­niani. Vediamo come si pone il pro­blema con qual­che appunto che vada oltre que­sta con­fu­sione. È a tutti evi­dente (e senza dub­bio anche a Dardot-Laval) che lo svi­luppo capi­ta­li­stico ha attinto un livello di «astra­zione» (nel senso mar­xiano della defi­ni­zione del valore) e, quindi, una capa­cità di sfrut­ta­mento che si estende sulla società intera. Den­tro que­sta dimen­sione dello sfrut­ta­mento si costrui­sce una sorta di «comune per­verso», quello di uno sfrut­ta­mento che si eser­cita sopra e con­tro l’intera società. Sulla vita intera. Il capi­tale è dive­nuto un bio­po­tere glo­bale. A Dardot-Laval, l’avvertire que­sta glo­ba­lità ed inva­si­vità del bio­po­tere, ovvero la potenza del «comune per­verso», richiama le ragioni della cri­tica della teleo­lo­gia denun­ciata nel socia­li­smo mar­xi­sta, quasi che il dato del bio­po­tere costi­tuisse una nuova deriva teleo­lo­gica – ma la cor­retta sot­to­li­nea­tura del limite mar­xiano nell’analisi dia­let­tica dello svi­luppo capi­ta­li­stico, può forse can­cel­lare o farci dimen­ti­care le dimen­sioni attuali del bio­po­tere capi­ta­li­sta?

La cri­tica che Dardot-Laval fanno dello «sfrut­ta­mento per depos­ses­sione» di David Har­vey e di tutte le ana­lisi neo-marxiste che hanno intra­vi­sto nel modello mar­xiano del «accu­mu­la­zione ori­gi­na­ria» ana­lo­gie con quanto sta avve­nendo ora a livello glo­bale – cioè uno «sfrut­ta­mento estrat­tivo» — è equi­voca per­ché nega il pro­blema, nel men­tre ne cri­tica la solu­zione. E lo è tanto più per­ché ignora total­mente la fun­zione del capi­tale finan­zia­rio (o addi­rit­tura la fun­zione pro­dut­tiva di denaro, inte­resse e ren­dita) quando accusa altri autori mar­xi­sti – attenti alla ricom­po­si­zione della ren­dita come stru­mento di sfrut­ta­mento e nuova figura del pro­fitto – di aver ridotto (prou­d­ho­nia­na­mente) il pro­fitto a «furto» di un comune sostan­zia­liz­zato, «cosale».

Un furto di pluslavoro

Qui la posi­zione di Dardot-Laval sem­bra dimen­ti­care, nel fuoco della cri­tica, i linea­menti più ele­men­tari del pen­siero mar­xiano – ed in par­ti­co­lare che il capi­tale non è un’essenza indi­pen­dente, un Levia­tano, ma un rap­porto pro­dut­tivo di sfrut­ta­mento. E che, nella con­di­zione attuale, il capi­tale finan­zia­rio inve­ste un mondo pro­dut­tivo social­mente orga­niz­zato, accu­mu­lando nelle tra­file dell’estrazione di plu­sva­lore sia lo sfrut­ta­mento diretto del lavoro ope­raio, sia la depos­ses­sione dei beni natu­rali, dei ter­ri­tori e delle strut­ture del Wel­fare state, sia l’estrazione indi­retta di plu­sva­lore sociale, attra­verso l’esercizio della domi­na­zione mone­ta­ria. Se si vuole chia­mare «furto» tutto ciò, non mi scan­da­liz­ze­rei – non si è prou­d­ho­niani per­ché si usa quella parola, quando si dà ad essa il signi­fi­cato che oggi il capi­tale le dà: cioè un modo di accu­mu­la­zione diret­ta­mente inne­stato sulle nuove forme del pro­cesso lavo­ra­tivo e della sua socia­liz­za­zione – sia nella dimen­sione indi­vi­duale sia nella sua figura asso­cia­tiva. Quando Marx dice che il capi­ta­li­sta si appro­pria dell’eccedenza di valore che la coo­pe­ra­zione fra due o più lavo­ra­tori deter­mina, non nega di certo che nello stesso tempo il capi­tale si sia appro­priato anche del plu­sla­voro dei sin­goli lavo­ra­tori. Il «furto» inte­gra lo sfrut­ta­mento di plu­sla­voro e rende il capi­tale ancor più inde­cente di quanto sia sem­pre stato nello svi­lup­pare la produzione.

Nel Marx di Dardot-Laval si sen­tiva cor­rere una vena fou­caul­tiana (intendo con ciò un approc­cio sto­rico attra­ver­sato dall’attenzione alle sog­get­ti­vità agenti). Ora, que­sta vena è sfio­rita – sfio­rendo, essa si è por­tata via anche il frutto, che era una con­si­de­ra­zione vivace e dina­mica della sto­ria del capi­ta­li­smo. Qui c’è – in assenza di una meto­do­lo­gia sto­ri­ca­mente rifles­siva – un approc­cio senz’altro dur­khei­miano (forse addi­rit­tura cate­go­riale, kan­tiano) allo svi­luppo capi­ta­li­sta. Il capi­tale sem­bra una mac­china atem­po­rale e onni­po­tente. La «sus­sun­zione reale» non è vista come con­clu­sione di un pro­cesso sto­rico ma con­si­de­rata sola­mente come figura del pro­cesso di «ripro­du­zione allar­gata» del capitale.

Senza la classe e il capitale

Accanto a ciò, tut­ta­via, una certa sto­ri­cità è rein­tro­dotta nel con­si­de­rare – in maniera sto­ri­ca­mente distesa – l’efficacia distrut­tiva (sem­pre più rea­liz­zata) nella pro­du­zione capi­ta­li­sta delle/sulle sog­get­ti­vità al lavoro. La lotta di classe non esi­ste­rebbe più. Que­sta sem­bra essere l’ipotesi con­clu­siva di una con­ce­zione che ha comin­ciato con l’escludere la lotta di classe – mar­xia­na­mente intesa – dalla costi­tu­zione del con­cetto di capi­tale. Sem­bra che la de-materializzazione del «comune», così pesan­te­mente con­dotta (e l’esclusiva defi­ni­zione del «comune» come «azione», come prin­ci­pio di atti­vità), impli­chi in maniera cor­ri­spet­tiva la de-materializzazione della «lotta di classe» — come se anche l’esasperata insi­stenza su una pro­du­zione capi­ta­li­sta di sog­get­ti­vità lavo­ra­tive, inte­rior­mente assog­get­tate al comando, impli­casse la nega­zione della sog­get­ti­vità pro­dut­tiva come tale.

Ma senza sog­get­ti­vità pro­dut­tiva non c’è nep­pure con­cetto di capi­tale. Così va a finire che davanti al muta­mento sto­rico dello sfrut­ta­mento (qui incom­preso); di fronte al defi­nirsi del capi­tale sem­pre più come «potere sociale» (qui negato); di fronte ad una così estesa emer­genza del «comune», impo­sta dal rea­liz­zarsi di un nuovo modo di pro­du­zione (e si noti che quest’emergenza ha già deter­mi­nato nuove forme del pro­cesso lavo­ra­tivo) – din­nanzi a tutto ciò si dimen­tica che solo il «lavoro vivo» è pro­dut­tivo. Che solo la sog­get­ti­vità è resi­stente. Che solo la coo­pe­ra­zione è potente. Che il comune non è, dun­que, sem­pli­ce­mente «atti­vità», ma atti­vità pro­dut­tiva di ric­chezza e di vita – e tra­sfor­ma­trice del lavoro. Il comune non è un ideale (può anche esserlo) ma è la forma stessa nella quale la lotta di classe oggi si defi­ni­sce. Chie­diamo a Dar­dot e Laval: se il comune non è oggi un desi­de­rio impian­tato nella cri­tica dell’attività pro­dut­tiva, e se solo brilla davanti alla nostra coscienza rin­ci­trul­lita dalla vio­lenta pene­tra­zione del bio­po­tere, se è sem­pli­ce­mente un «prin­ci­pio» – che cosa mai ci impone di lot­tare? Dar­dot e Laval sem­brano rispon­dere che il prin­ci­pio del comune è una cate­go­ria dell’attività, dell’istituzione – esso non si fonda sul reale ma fonda il reale – non lo si con­qui­sta ma (essi lun­ga­mente argo­men­tano – ed il con­cetto andrà altrove ripreso) even­tual­mente lo si ammi­ni­stra. Per­ché dun­que lottare?

Oltre ogni cri­tica, que­sto libro ria­pre il dibat­tito sul comune e nes­suno stu­pirà che così si sia ria­perto anche il dibat­tito sul comunismo

ARTICOLI CORRELATI
31 Dicembre 2014

© 2024 Eddyburg