Tre articoli (di Gaetano Azzariti, Andrea Fabozzi, Vincenzo Accattatis) illustrano e commentano l'ulteriore passo della discesa verso la fine della democrazia in Italia. Ma possono ancora essere fermati. La loro pasticcionaggine è il primo alleato di chi vuole contrastarli, ma non è certo sufficiente.
Il manifesto, 9 agosto 2014
UNDELITTO, TANTI AUTORI
di Gaetano Azzariti
Costituzione. Il maggior responsabile è il Governo che ha diretto l’intera operazione senza lasciare nessuno spazio all’autonomia del Parlamento con progressive imposizioni e l’ininterrotta invasività della sua azione che hanno annullato di fatto il ruolo costituzionale del Senato.
Un’infinita tristezza. È questo il sentimento che prevale nel momento in cui si assiste alla votazione del Senato sulla modifica della Costituzione. Domani riprenderemo la lotta per evitare il peggio: perché la legge costituzionale concluda il suo iter dovranno passare ancora molti mesi e altri passaggi parlamentari ci aspettano, poi - nel caso - il referendum oppositivo. Dunque, nulla è ancora perduto. Salvo, forse, l’onore.
In pochi giorni il Senato non ha approvato una riforma costituzionale (buona o cattiva che si possa ritenere), bensì ha distrutto il Parlamento sotto gli occhi degli italiani. Nessuno dei protagonisti è stato esente da colpe. Si è assistito a una sorta di omicidio seriale, ciascuno ha inferto la sua pugnalata. Alcuni con maggior vigore, altri con imperdonabile inconsapevolezza, altri ancora non trovando altre vie d’uscita.
Il maggior responsabile è certamente stato il Governo che ha diretto l’intera operazione, senza lasciare nessuno spazio all’autonomia del Parlamento. Le progressive imposizioni e l’ininterrotta invasività dell’azione del Governo in ogni passaggio parlamentare hanno annullato di fatto il ruolo costituzionale del Senato. Non s’è trattato solo dell’anomalia della presentazione di un disegno di legge governativo in una materia tradizionalmente non di sua competenza.
Ma anche nell’aver costretto la Commissione - in modo poco trasparente - a porre questo come testo base nonostante la discussione avesse fatto emergere altre maggioranze. E poi, ancora, nell’aver voluto controllare tutto il lavoro dei relatori - è la presidente della Commissione che ha riconosciuto che il Governo ha “vistato” gli emendamenti presentati appunto dai relatori - con buona pace dell’autonomia del mandato parlamentare e del rispetto della divisione dei poteri.
Non solo i relatori, ma ogni senatore ha dovuto confrontarsi non tanto con l’Assemblea bensì con la volontà governativa, e molti si sono piegati. Mi dispiace doverlo dire, ma l’andamento dei lavori ha dimostrato come un certo numero degli attuali senatori non tengano in nessun conto non solo la Costituzione, ma neppure la responsabilità politica, di cui ciascuno di loro dovrebbe essere titolare dinanzi al corpo elettorale.
I pochissimi voti segreti concessi su questioni del tutto marginali hanno fornito la prova di quanto fossero condizionati e insinceri i voti palesi. È stato così possibile evidenziare l’esteso numero dei rappresentanti della nazione che hanno votato con la maggioranza solo per timore di essere messi all’indice dagli stati maggiori dei rispettivi partiti. Una lacerazione costituzionalmente insopportabile. Se non si garantisce (o non si esercita) la libertà di coscienza sui temi costituzionali il principio del libero mandato serve veramente a poco. E tutto è stato fatto, invece, per vincolare i rappresentanti alla disciplina di partito. Ancora un colpo all’autonomia del Parlamento inferto - più che dal Governo o dai partiti - da quegli stessi senatori che non si sono voluti opporre palesemente a ciò che pure non condividevano.
S’è discusso e polemizzato sulla conduzione dei lavori, sull’interpretazione dei regolamenti e dei precedenti. Quel che lascia basiti è però altro. Ciò che è mancato è la consapevolezza che si stesse discutendo di una riforma profonda del nostro assetto dei poteri e degli equilibri complessivi definiti dalla Costituzione. Se si fosse partiti da questo assunto non si sarebbe potuto accettare, in nessun caso, un andamento che ha sostanzialmente impedito ogni seria discussione su tutti i punti della revisione proposta. Non si sarebbe dovuto assistere allo spettacolo surreale che ha visto prima esaurire nella rissa e nel caos il tempo della discussione, per poi procedere a un’interminabile serie di votazioni, con un’Assemblea muta e irriflessiva che meccanicamente respingeva ogni emendamento dei senatori di opposizione e approvava la riforma definita dagli accordi con il Governo. Spetta al presidente di assemblea dirigere i lavori garantendo la discussione.
Non credo possa affermarsi che ciò sia avvenuto. Anche in questo caso per il concorso di molti. Persino dell’opposizione, la quale ha dovuto utilizzare l’arma estrema dell’ostruzionismo che, evidentemente, ostacola una discussione razionale e pacata. Ciò non toglie che non si doveva accettare nessuna forzatura sui tempi, nessuna interpretazione regolamentare restrittiva dei diritti delle opposizioni, nessuna utilizzazione estensiva dei precedenti. Si doveva invece ricercare il dialogo, la trasparenza, il concorso di tutti i rappresentanti della nazione. Era compito di tutti creare un clima “costituzionale”, idoneo alla riforma. Nessuno lo ha ricercato. E temo non sia solo una questione di temperatura, ma - ahimè - di cultura costituzionale che non c’è.
La conclusione di ieri ha sancito la dissolvenza del Parlamento. La delegittimazione dell’organo titolare del potere di revisione della Costituzione è alla fine stata sanzionata dagli stessi suoi componenti. Il rifiuto di partecipare al voto conclusivo da parte di tutti gli oppositori rende palese che non si può proseguire su questa strada. Vedo esultare la maggioranza accecata dal successo di un giorno, mi aspetto qualche rozza battuta rivolta alla opposizione “che fugge”. Ma spero che, oltre la cortina dell’irrisione, qualcuno si fermi per pensare a come rimediare. La Costituzione non può essere imposta da una maggioranza politica senza una discussione e contro l’autonomia del Parlamento.
FESTAALLA COSTITUZIONE. MA È SOLO L’INIZIO
diAndrea Fabozzi,
Senato. Primo sì del parlamento: la riforma governativa perde molti voti e resta sotto la soglia dei 2/3: il referendum non sarà una concessione di Renzi. Alla maggioranza del Nazareno mancano 50 voti e il testo è pieno di «bachi» che richiedono modifiche
I grillini sfilano in riga sotto il naso di Anna Finocchiaro, piantata di guardia al centro dell’emiciclo. Lasciano l’aula per non partecipare al voto sulla riforma costituzionale. I leghisti si sorbiscono tutto il dibattito, ma vanno via alla fine per permettere a Calderoli di distinguersi: il relatore si astiene restando fermo al suo banco. Chi è contro non vota: Sel e il gruppo misto che si sono caricati il peso dell’ostruzionismo, i non convinti del Pd, i frondisti di Forza Italia. Così la riforma «storica» del senato chiude il primo giro senza nessun voto contrario. Ma con tanti voti favorevoli in meno.
L’ultima e più importante di duemila e trecento votazioni ferma i SIa quota 183, più vicina alla soglia minima indispensabile per una legge costituzionale (161) che a quella di sicurezza per evitare il referendum (214), quando arriverà la quarta lettura. Alla maggioranza del patto ri-costituente mancano una cinquantina di voti: i «dissidenti» annunciati si confermano — 19 berlusconiani e 16 democratici — in più si contano una quindicina di assenti, numerosi nel gruppo di Alfano. Renzi ha promesso la graziosa rinuncia alla maggioranza dei due terzi, per permettere il referendum confermativo. Il tabellone del senato dice che quella maggioranza non ce l’ha.
Oggi è così, ma la strada è lunga. I bachi più evidenti rimasti nel testo, oltre all’omaggio per il ruolo dei deputati, lasciano prevedere qualche modifica alla camera; la legge dunque dovrà tornare al senato. La pausa di riflessione imposta dall’articolo 138 della Costituzione e il referendum finale faranno il resto: della riforma si parlerà ancora per tutto il 2015. Il patto del Nazareno dovrà dare prova di resistenza, sempre che non venga allargato anche al resto dei dossier (più) urgenti. Un’eventuale campagna per il no al referendum partirebbe in salita, ma potrebbe insistere sull’immunità (impopolare e non abolita) e sul voto diretto (più gradito, ma cancellato). «Il governo — prevede la capogruppo di Sel Loredana De Petris — si aspetta un plebiscito ma non è detto che vada così».
Nel frattempo, ed è uno degli aspetti più assurdi della riforma renziana, tra questo autunno e la prossima primavera gli italiani eleggeranno la gran parte dei consigli regionali e molti sindaci, senza sapere se stanno contemporaneamente selezionando i futuri senatori. Lo prevede il testo approvato ieri, rischiando così l’incostituzionalità: per l’articolo 51 tutti devono essere messi in condizione di accedere «con uguaglianza» alle cariche elettive. Le disposizioni transitorie potrebbero essere corrette, eliminando la lotteria della prima volta per una vera elezione di secondo grado, ma per farlo bisognerebbe rinviare di cinque anni la tanto acclamata trasformazione del senato. È questa una delle tante incongruenze pratiche che originano nella trasformazione dei consiglieri regionali e dei sindaci in legislatori, il pasticcio dell’immunità è solo quella più evidente.
Un’altra incongruenza è quella che denuncia il senatore Chiti, il più esposto dei 16 «dissidenti» Pd. Lungi dal «rappresentare le istituzioni territoriali», i senatori-consiglieri saranno selezionati dai capi partito e nel nuovo senato replicheranno la divisione in gruppi (anche se la riforma elude il problema, non prevedendo la proporzionalità di rappresentanza nelle commissioni). Infatti un emendamento che avrebbe obbligato tutti i rappresentanti di un territorio a votare allo stesso modo — un po’ come nel Bundesrat tedesco — è stato respinto dalla maggioranza. Anche su questo tema però molto è rinviato al futuro: approvata la riforma, infatti, dovranno essere ancora le camere — con il vecchio o magari con il nuovo regime parlamentare — a dover scrivere le regole per le elezioni di secondo grado.
Magari anche questi «dettagli» successivi saranno affidati a un patto a due; visto che come da riassunto del capogruppo di Forza Italia Romani «questa riforma porta le firme di Renzi e Berlusconi» — niente male per il più solenne degli atti parlamentari. C’è per esempio una porta socchiusa per il referendum propositivo, che viene solo nominato nella nuova Carta ma che potrebbe essere sviluppato, con legge costituzionale, assai bene quanto assai male. L’enfasi di Calderoli sul fatto che «non è stata esclusa alcuna materia» può suonare preoccupante. Altre però sono le preoccupazioni immediate. Alla camera, in autunno, si ripartirà dal tentativo di correggere il meccanismo di elezione del presidente della Repubblica, che al momento è nella disponibilità della maggioranza dopo le prime otto votazioni. E assieme al Quirinale, per il primo partito, c’è un altro omaggio: la possibilità di indicare 8 giudici della Corte Costituzionale, su 15.
di Vincenzo Accattatis
Il Senato in era renziana. Patti misteriosi. Elaborazione di una costituzione illegittima che ovviamente produce politiche illegittime (Gustavo Zagrebelsky, «La costituzione e il governo stile executive», la Repubblica di mercoledì). Fase di decostituzionalizzazione, di distruzione dei valori, a livello nazionale e internazionale. La forza che subentra al diritto. Forza più propaganda. Manipolazione della pubblica opinione. Costituzione materiale che si contrappone a quella formale. Un parlamento eletto incostituzionalmente che pretende «riformare» la Costituzione. Non riforma, ma «capovolgimento della Costituzione» pensata per durare, per infrenare il potere che deborda.
Camere sotto sferza come vecchio ronzino. Tutto in vista del presidenzialismo, di là da venire ma già di fatto largamente esistente: capo dello Stato eletto per la seconda volta da un parlamento di nominati plaudente, ancora in carica che dà a Renzi le direttive di governo come le dava a Monti, a Letta.
Storia dell’antiparlamentarismo italiano che si lega alla storia del presidenzialismo di fatto. Una lunga storia «nefasta».L’antiparlamentarismo ha le sue ragioni ma l’llusione «di un governo dalle mani libere» è parimente nefasta. Il bonapartismo italiano di ieri e di oggi. Un’oligarchia al potere. Chi tira i fili sta dietro le quinte.
Da «libero parlamento» a «libero governo». Governabilità come nuovo volto dell’autoritarismo. Le opposizioni come intralcio. L’esecutivo che «educa» il parlamento. I deboli soccombono, le minoranze sono schiacciate. Il Pd «partito degli italiani» o «della nazione».
Zagrebelsky mantiene la sua analisi sul piano costituzionale italiano, ma essa vale anche come analisi di livello mondiale: la forza che prevale sul diritto, la normativa internazionale che diviene carta straccia, obliterata da Israele che nel nome di Sion bombarda la striscia di Gaza. Le terrificanti immagini di Gaza sono davanti agli occhi di tutti gli europei. Grandi manifestazione a Parigi, a Londra, in altre capitali europee. Gaza, «una prigione a cielo aperto», un simbolo per tutti noi?
L’Unione europea sanziona il «cattivo Putin» ma non Israele. Due pesi e due misure? L’Unione europea può ancora parlare, credibilmente, di difesa dei diritti dell’uomo? Israele «vince la battaglia ma perde la guerra». «Gaza e il futuro di Israele» (The Economist del 2.8.2014, in tutta copertina). Correggerei: Gaza e il futuro dell’Europa, del preteso «mondo libero» che si dice impegnato a difendere i diritti dell’uomo.