L'irresponsabile cecità delle politiche del Primo mondo hanno condotto all'attuale trionfo della barbarie. Ma «se non si vuole ricadere in una strategia che combatte la ferocia con altra ferocia converrà abbandonare per i seguaci e le milizie del califfato l’abusata categoria di "terrorismo"». Il manifesto, 24 agosto 2014
Gli esponenti del M5S sembrano possedere un talento, quasi innato, nel ridurre a sciocchezza anche il più serio dei problemi. La vecchia retorica del “pane al pane e vino al vino” finisce col sacrificare la chiarezza a quella banalità rozza e scurrile che spiana la strada alla peggior propaganda “occidentalista”, e all’interessata incomprensione delle scelte politiche e strategiche che hanno condotto il Vicino Oriente all’attuale disastro. Eppure, qualche elemento abbastanza chiaro poteva essere messo in campo per cominciare a ragionare con la testa.
Se gli strateghi americani avessero capito per tempo che la guerra fredda era vinta, anche senza alimentare l’estremismo islamico contro i nazionalismi postcoloniali, tutti ne avremmo avuto molto da guadagnare, e gli Stati uniti per primi. Oggi non c’è analista geopolitico né storico di una qualche serietà che non ammetta che l’espansione dell’islamismo politico e delle sue espressioni militari sia avvenuta in quel contesto e abbia comportato conseguenze disastrose. Cosa vi era di meglio della religione, del suo ordine gerarchico, della sua presa e del suo radicamento nel pregiudizio popolare per contrastare i senza dio blanditi e manipolati dal Cremlino? E, in fondo in fondo, magari inconsapevolmente, la destra Usa apprezzava più il rigore morale delle religioni che non l’anarchia dell’ateismo.
In qualche caso il “laicismo” convertito, come quello di Saddam, poteva tornare utile contro il corso antioccidentale preso dalla rivoluzione iraniana, ma intanto in Afghanistan stazionava l’armata rossa. Chi si sarebbe incaricato di farla sloggiare? E di minare dall’interno i regimi socialisteggianti appoggiati dall’Unione sovietica? Certo, non sarebbero bastati i soldi, le armi, gli addestramenti americani e sauditi a spodestarli se la storia dei nazionalismi postcoloniali non avesse preso una piega burocratica, autoritaria, profondamente corrotta, mentre l’Urss, infischiandosene altamente del “socialismo” africano, arabo o asiatico che fosse, perseguiva una pura e semplice politica di potenza neanche troppo generosa verso i suoi protetti. Quei regimi, a dir poco difficilmente convertibili alla democrazia, potevano comunque essere comprati, ma bisognava prima sbarazzarsi dell’influenza sovietica e delle classi dirigenti troppo ideologizzate. E dunque puntare sulle forze della tradizione contro quelle che sventolavano, ormai più retoricamente che altro, le bandiere del progresso.
Se vogliamo semplificare all’estremo pressapoco la storia è questa. E non sono solo i più incalliti “antiamericani” a sostenerlo. Ma il gioco a distanza non sempre funziona, men che meno nel mondo globalizzato. La “vietnamizzazione” del Medio oriente si è presto trasformata in un caos incontrollabile. Cosicché, ripetutamente, gli Stati uniti si sono dovuti impelagare in un intervento diretto. Senza riuscire a venire a capo del processo che avevano messo in moto. La parte dei senza dio e l’ostilità assoluta che le viene indirizzata, toccava ora a loro e ai loro alleati occidentali. Che poi, le bombe, Abu Grahib e Guantanamo dovessero potentemente alimentare la spirale dell’odio è una storia che viene dopo, a partita iniziata da un pezzo nel risiko impazzito allestito dalle amministrazioni americane. Un gioco che la concentrazione delle risorse energetiche in quell’area impediva di abbandonare, anche dopo il tramonto dell’Urss che però non aveva cancellato del tutto la potenza russa. Ci voleva poi tanto a mettere insieme questi pochi passaggi invece di sbraitare facendosi tirare le orecchie perfino dai somari geopolitici dell’area di governo?
Nondimeno il problema, una volta stabilita la responsabilità dell’ “imperialismo nordamericano”, sussiste e si aggrava ogni giorno di più. Il dottor Frankenstein, come narra il racconto, avrebbe inseguito la sua mostruosa creatura fino al Polo nord per distruggerla. E sul fatto che il “califfato” di Al-Baghdadi debba essere sconfitto anche sul piano bellico converrebbe concordare, essendo qualsiasi forma di diplomazia fuori gioco di fronte a una entità politico-militare costitutivamente votata all’espansione illimitata e all’inimicizia assoluta. Il problema è stabilire come. Possibilmente non nello stesso modo cinico e irresponsabile con cui sono state costruite le premesse della sua insorgenza e del suo successo. Ma neanche con i tempi di quella pedagogia democratica che da tempo val meno di una burla.
La situazione è imbarazzante. L’Occidente si trova a dover ricorrere a quanti fino a ieri figuravano tra le peggiori canaglie, il siriano Assad o l’Iran quasi atomico degli ayatollah per far fronte all’ultimissimo “nemico pubblico n 1″. Il risiko continua e tira in ballo i kurdi, che certamente navigano su un mare di petrolio e brigano per la propria indipendenza, ma sono pur sempre in prima linea e si sono fatti le ossa contro una lunga storia di oppressione che li preserva da incombenti rischi di oscurantismo, rendendoli interlocutori non solo dell’Occidente ma, forse, anche di una più generale e condivisa razionalità politica.
Tuttavia, se non si vuole ricadere in una strategia che combatte la ferocia con altra ferocia converrà abbandonare per i seguaci e le milizie del califfato l’abusata categoria di “terrorismo”. Quella sulla base della quale tutti i regimi dittatoriali, come la Siria di Assad, l’Iran o l’Egitto dei generali, perseguitano e massacrano i propri oppositori e l’Occidente si sottrae alle stesse regole e ai limiti di legittimità che pure si è dato. L’Isis, aldilà dai metodi terrorifici che impiega, non ha nulla in comune con una formazione terroristica. Si tratta di uno stato, o embrione di stato, che dispone di un governo e di un esercito ben organizzato, che controlla un territorio e che l’attuale fase espansiva preserva, almeno per il momento, da conflitti e contraddizioni interne, esercitando una formidabile attrattiva sulla grande massa dei “perdenti”. Un embrione di stato che dispone di relazioni internazionali e alleanze, a cominciare dalle petromonarchie del golfo, il cui torbido ruolo è circondato, come del resto le politiche assolutistiche che le governano, dal più assoluto silenzio degli Stati uniti. Un’entità quale il califfato di Al-Baghdadi non può che essere oggetto di una guerra convenzionale, nel rispetto di quello ius in bello, che l’ideologia e la pratica dell’ “antiterrorismo” hanno invece di fatto accantonato. Piaccia o non piaccia, la guerra è in pieno svolgimento ed è con questo che bisogna confrontarsi, senza cullarsi nella speranza di iniziative diplomatiche del tutto al di fuori dall’orizzonte presente. Senza perdere però la consapevolezza che l’intervento dell’Occidente in quell’area non ha prodotto fino ad oggi che una escalation della violenza e una destabilizzazione senza rimedio. Armi ai curdi? Finché le potenze sunnite del Golfo continueranno ad armare l’Isis forse è un’opzione non irragionevole. Altrimenti gli Usa dovrebbero costringere, con le buone o con le cattive, i sauditi e gli emiri a tagliare quel canale di rifornimento. In fondo il dottor Frankenstein ce lo dovrebbe questo tardivo atto di riparazione.