Sbilanciamoci, 10 marzo 2017 (c.m.c.)
Festa grande alla fine del Carnevale. Razzi, scoppi e mortaretti per la clamorosa notizia: il Pil del 2016 è cresciuto non dello 0,8%, secondo le ultime previsioni del governo (dopo varie revisioni al ribasso), ma addirittura dello 0,9%. Un trionfo. E per quest’anno forse si potrebbe persino raggiungere l’1%, un altro decimale in più (ma mica è scontato). Avanti così, e forse tra un’altra decina d’anni riusciremo a tornare dove eravamo prima del 2008, sempre se non arrivano altre crisi. Insomma, un futuro luminoso.
Ma anche sul breve termine il governo non ha tanto da stare allegro. Non tanto per i 3,4 miliardi che la Commissione Ue ci ha imposto di trovare subito come condizione per approvare i conti di quest’anno: quello è solo l’antipasto, perché per il 2018 c’è da coprire un’altra di quelle clausole di salvaguardia che vengono dalle manovre passate, e lì son dolori, perché si tratta di quasi 20 miliardi. Per la precisione, secondo i calcoli di Nens, sono 19,571 miliardi, e per coprirli, se non si provvede altrimenti, aumenterà l’Iva di tre punti - dal 10 al 13 e dal 22 al 25% - diventando la più alta in Europa.
L’aumento dell’Iva è sempre stato paventato come una catastrofe quasi pari a un terremoto o un’inondazione. Certo, non è una bella cosa. Certo, sarebbe un nuovo aumento del prelievo fiscale, per giunta con un’imposta regressiva, cioè che colpisce tutti indistintamente. Certo, non farebbe bene ai consumi, che “fanno” due terzi del Pil. E però ha anche l’effetto di favorire i prodotti nazionali, perché colpisce le importazioni e non le esportazioni. Se proprio bisogna trovare quei soldi, meglio l’aumento dell’Iva o meglio altri tagli al welfare o agli investimenti, quei pochi che sono previsti? Uno potrebbe dire: meglio tassare i ricchi. Ma – a parte che la cifra è cospicua – chi lo dicesse sarebbe subito tacciato di populismo, se non di bolscevismo fuori tempo. Renzi, peraltro, aveva detto che nel 2018 le tasse le voleva ridurre: francamente non sembra aria.
Comunque una manovra da 20 miliardi, che siano tagli o nuove tasse, peserà in ogni caso sulla nostra già anemica crescita, mettendo a rischio persino quel già misero 1%, che infatti alcuni previsori – da ultimo il rapporto di Standard & Poor’s – giudicano un obiettivo difficile. E però lasciar correre il deficit non si può: la Commissione ci ha appena contestato uno sforamento dello 0,2%, figuriamoci uno di quasi l’1,2%, al di fuori di qualsiasi ipotetica “flessibilità” delle regole, che peraltro ci hanno già detto che abbiamo sfruttato al massimo possibile.
Ci avviamo dunque verso la fine del quantitative easing, che tiene a bada tassi e spread facendoci risparmiare bei soldoni di interessi sul debito, con questo peso da sopportare, e non è il solo: non possiamo certo dimenticare il problema delle sofferenze bancarie, tutt’altro che risolto. Il tutto in una situazione politica quanto mai incerta, con all’orizzonte elezioni che – anche se si arriverà alla scadenza naturale della legislatura – potrebbero provocare una situazione in cui sarà problematico formare una maggioranza di governo.
Ma chi ci ha ficcato in guai così grossi? La maggior parte delle persone, come spesso accade, si divide in due partiti. I Guelfi, quelli che sono contro l’impero, non hanno dubbi: la colpa è dell’Europa egemonizzata dalla Germania, della politica di austerità, dell’euro che ci impone una moneta sopravvalutata. I Ghibellini, quelli che stanno con la Svevia (antica regione tedesca), alzano gli occhi al cielo con aria di rancoroso compatimento: niente affatto, la colpa è dei governi italiani, che non hanno sfruttato il lungo periodo di bonaccia dall’inizio dell’euro allo scoppio della crisi per aggiustare i conti (e questo è vero: grazie Berlusconi) e poi non hanno fatto le riforme (mitiche!), o non ne hanno fatte abbastanza. Chi ha ragione? Purtroppo, entrambi i partiti.
Cominciamo dall’Europa. Se ne può dire tutto il male possibile, e ancora non basta. Tralasciamo il problema di fondo, cioè che è stata costruita male, che non è certo un dettaglio. Ma oltre a questo, fin dallo scoppio della crisi si è fatto di tutto per non risolverla, e anzi aggravarla. Ricordiamo che all’esplosione del caso greco la Germania ha impedito che fosse affrontato tempestivamente, perché il suo obiettivo – riuscito – era mettere in piedi quel meccanismo che ha trasformato i debiti greci con le banche tedesche e francesi in crediti verso la Grecia di tutti i paesi Ue, (http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2015/02/23/i-furbetti-del-salvataggio/ ) che hanno così contribuito – mentre la situazione si incancreniva e si scatenava la speculazione sui debiti pubblici – a salvare quelle banche. Poi l’imposizione della politica di austerità mentre la congiuntura recessiva avrebbe richiesto il contrario, cioè stimoli fiscali all’economia, e l’uso delle aggravate difficoltà dei paesi del Sud Europa per imporre riforme (http://nuke.carloclericetti.it/AlsosprachMerkel/tabid/340/Default.aspx ) che riducessero le garanzie dei lavoratori. In piena recessione venivano varati il Six pack, il Two pack, il Fiscal compact, che imponevano un sentiero di consolidamento dei conti pubblici che avrebbe perpetuato la politica di austerità (il cosiddetto “pilota automatico”, teso a ridurre al minimo la discrezionalità delle scelte dei governi).
Non basta. Le verifiche sul rispetto del percorso di consolidamento della finanza pubblica sono fatte dai tecnocrati della Commissione con una metodologia assurda (http://nuke.carloclericetti.it/LinkClick.aspx?link=501&tabid=36 ) e ideologicamente orientata, basata su una grandezza che è frutto di stime arbitrarie, il “Pil potenziale”, che si potrebbe descrivere con la filastrocca dedicata all’Araba fenice: «Che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa». E in base a questa metodologia fantasiosa, che l’Italia ha contestato (http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2014/10/17/finalmente-litalia-contesta-un-po-la-ue/ ) – troppo tardi – senza ottenere il minimo risultato, si chiedono ogni anno sacrifici veri, tagli di spesa o aumenti di tasse.
L’elenco potrebbe continuare con i tanti “no” che rendono la costruzione europea ancor più sbilenca che negli anni passati. “No” alle tante proposte per risolvere la questione dei debiti pubblici, anche a quelle che non prevedono trasferimenti di risorse tra paesi (http://nuke.carloclericetti.it/IlPADRE/tabid/348/Default.aspx ); “no” alla garanzia comune sui depositi, che pure era nei patti dell’unione bancaria; “no” ai limitati interventi statali per le nostre banche, dopo che gli altri (Germania in testa) hanno salvato le loro con miliardi pubblici a palate; “no” a una politica europea di investimenti, a meno di non voler considerare tale il ridicolo Piano Juncker (http://nuke.carloclericetti.it/Junckerunannodopo/tabid/410/Default.aspx ), di cui si sono ormai perse le tracce. Gli ultimi anni dell’Unione, dal 2008 in poi, sono un vero e proprio racconto dell’orrore.
Non spendiamo altre parole sulle infinite colpe dell’Europa a guida tedesca. Ma veniamo alle nostre, di colpe, che non sono poche. La più grande è stata quella di accettare tutto, la gestione della crisi, i trattati sulla finanza pubblica, i metodi di calcolo, il tipo di riforme che ci sono state chieste, le norme sul bail-in. A volte con entusiasmo, come per la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio che non era obbligatoria (e infatti quasi nessun altro l’ha fatto); a volte senza fiatare; altre volte, infine, con proteste o tanto flebili da non essere prese in considerazione (la metodologia del Pil potenziale, l’entrata in vigore immediata del bail-in) o rumorose ma di facciata, come quelle dell’ultimo periodo di Renzi, e per giunta su obiettivi il più delle volte sbagliati: pietire la “flessibilità” per il bilancio significa accettare implicitamente tutto lo schema entro cui questa “concessione” si colloca, quello schema che appunto andrebbe invece contestato con tutti i mezzi politici e procedurali disponibili.
Quel poco di gestione discrezionale della politica economica che ci è rimasta, poi, non è andata meglio. Sorvoliamo sui governi Monti e Letta, fedeli esecutori della linea di Berlino-Bruxelles. Renzi, invece, con l’idea di assicurarsi un consenso plebiscitario, quella linea l’ha stirata per tutto quel che ha potuto, e dall’Europa ha ottenuto margini non indifferenti, 19 miliardi di “sforamenti” rispetto ai conteggi “ortodossi”. Fra il 2014 e il 17 – ha calcolato il Rapporto sulla finanza pubblica del Mulino – ha speso 50 miliardi (10 finanziati con nuove tasse).
Una cifra ancora non sufficiente per un vero rilancio della nostra economia, ma che avrebbe potuto dare risultati ben più apprezzabili se fosse stata impiegata bene (http://nuke.carloclericetti.it/Flessibilit%C3%A0Nograzie/tabid/478/Default.aspx ). Invece ha dato risultati miseri perché si è seguito il pensiero economico dominante: non investimenti pubblici, perché lo Stato deve tenersi alla larga da interventi diretti: ma tanti soldi alle imprese (i due terzi del totale) perché così avrebbero ricominciato ad investire, e il resto in tasca ai consumatori (gli 80 euro, la girandola dei bonus) che così si sarebbero gettati a comprare svuotando i magazzini delle aziende. Naturalmente nulla di tutto questo è accaduto: le imprese non investono quando la domanda è stagnante, i consumatori spendono poco quando i salari sono bassi, la disoccupazione alta, il futuro incerto. Ed eccoci ancora con la crescita allo zero-virgola, fanalino di coda in Europa.
Insomma, l’Europa ci è matrigna, e noi ci abbiamo messo del nostro. Il quadro è disperante, il futuro non promette niente di buono. Soprattutto, non si vede una classe dirigente capace di prendere in mano la situazione e imprimere la sterzata che sarebbe necessaria. Forse è un discorso da gufi, ma doverlo fare non è certo una soddisfazione.