La Repubblica, 2 ottobre 2014
Che l’episodio più clamoroso si sia consumato proprio in provincia di Taranto, una città messa in ginocchio dai compromessi della politica, è forse emblematico, forse casuale. Ma dice molto su una riforma che doveva condurre all’abolizione delle province in Italia, e che in alcuni casi ha invece portato a listoni pigliatutto all’insegna delle larghe intese.
Per fare tutto questo, a Taranto, Vibo Valentia, Ferrara, Genova, Torino, i partiti si sono lasciati andare ad intese che da larghe sono diventate larghissime. In realtà - ufficialmente - nella città dell’Ilva il listone non c’è stato. Centrosinistra e centrodestra erano concorrenti, perché l’accordo cui stavano lavorando il deputato democratico pugliese Michele Pelillo e il consigliere regionale Michele Mazzarano (già indagato per aver avuto a che fare con Giampaolo Tarantini) a sostegno del sindaco forzista di Massafra Martino Tamburrano, era saltato in un tormentato congresso straordinario del Pd locale in cui il segretario regionale Michele Emiliano aveva giurato che mai avrebbe appoggiato alcun inciucio. I democratici avevano quindi candidato il sindaco di Laterza Gianfranco Lopane, tradito però nel segreto dell’urna. A vincere alla fine è stato infatti Tamburrano, nonostante sulla carta la maggioranza fosse tutta a sinistra. Perché gran parte del Pd lo ha votato. E perché quella che è in corso è una battaglia durissima, con lo sfidante di Emiliano alle primarie regionali Guglielmo Minervini che accusa il suo avversario di aver fatto «un inciucio di dimensioni massicce e organizzate». Ovvero, di tramare sottobanco per avere più consensi possibili in vista delle regionali.
È andata molto più tranquillamente a Ferrara per quello che è stato definito «il patto dei cappellacci ». A vincere è stata infatti la lista che aveva come candidato presidente il sindaco della città estense Tiziano Tagliani, e che teneva dentro Pd, Forza Italia, Lega e perfino 5 stelle con il sindaco di Comacchio Marco Fabbri. Quest’ultimo non avrebbe dovuto correre (Grillo lo aveva vietato impedendo una lista unitaria anche al sindaco di Parma Pizzarotti), ma non ha obbedito, ed è perfino risultato il secondo degli eletti (i consiglieri 5 stelle che avevano annunciato l’astensione devono aver cambiato idea all’ultimo momento). Per ora non risponde a chi gli chiede se non abbia paura di essere cacciato dal Movimento, si limita sommessamente a far notare che era una regola un po’ strana, quella che impediva di correre in provincia e lo rendeva possibile invece nelle città metropolitane (ci sono un eletto 5 stelle a Bologna e uno a Firenze).
Altrettanto serena la grande intesa di Genova, dove - addirittura - il sindaco Marco Doria (destinato a guidare la città metropolitana) ha fatto correre la sua lista insieme a Forza Italia, Pd e Nuovo centrodestra, dimostrando che anche Sel, in alcuni casi, è pronta a fare strappi alla regola. Mentre è corso più veleno a sud, nella provincia di Vibo Valentia, dove si sono spaccati un po’ tutti con richieste incrociate di dimissioni e accuse reciproche di candidature poco pulite. A vincere è stata la lista “Insieme per la Provincia di Vibo Valentia Adesso” (detta “l’accorduni”), che vedeva i renziani del Pd con esponenti del Nuovo Centrodestra, Forza Italia e Fratelli d’Italia.
Il prossimo 12 ottobre toccherà a Torino, dove il Pd ha fatto un accordo con Forza Italia, Nuovo Centrodestra e Moderati. L’hanno chiamato «patto costituente » in vista della nascita della città metropolitana, lo hanno fatto - spiegano i democratici - per poter rappresentare meglio il territorio, visto che col meccanismo del voto ponderato il capoluogo rischiava di schiacciare realtà come Ivrea o la Valsusa. Il capogruppo di Sel in comune Michele Curto però la racconta diversamente: «I motivi sono solo due. Piero Fassino vuole scegliersi i suoi 18 consiglieri, e l’attrazione delle larghe intese è stata irresistibile».