Il manifesto, 26 novembre 2014 (m.p.r.)
Il Jobs Act è passato anche alla Camera. Tornerà per l’approvazione definitiva al Senato, ma non si attendono sorprese. Renzi può portare a Bruxelles lo scalpo dell’articolo 18, anzi di tutto l’impianto dello Statuto dei diritti dei lavoratori, perché senza tutela reale ogni altro diritto è di per sé indebolito se non annullato. Hanno votato in 316 a favore del disegno di legge del governo. La maggioranza assoluta, per un voto, di una camera di nominati già politicamente delegittimata dalla bocciatura del porcellum da parte della Corte Costituzionale. Malgrado ciò quella maggioranza si è assunta la responsabilità di cancellare con un pulsante decenni di storia del conflitto sociale che avevano creato il “caso italiano” durante i “trenta anni gloriosi” del capitalismo occidentale.
Eppure questa volta per Renzi non è stato un trionfo. E’ forse esagerato dire che si è trattato di una vittoria di Pirro, ma per la prima volta Renzi ha dovuto incassare il dissenso aperto della minoranza del suo partito. Civati ha votato no, mentre Fassina e Cuperlo hanno trascinato fuori dall’Aula una trentina di deputati, assieme a quelli di Sel, dei Pentastellati e delle opposizioni di destra. A sua volta Bersani ha votato un sì per pura disciplina e palese nulla convinzione. E così sarà stato probabilmente per diversi altri. La presunta mediazione sul testo non ha tenuto né nel merito né politicamente. Il dissenso non è rientrato, è esploso.
Del resto è davvero difficile considerare un miglioramento quanto è stato precisato alla Camera rispetto al Senato. Per i licenziamenti per motivi economici non c’è alcun reintegro, solo l’indennizzo rapportato alla anzianità di servizio. Il reintegro compare solo per i licenziamenti chiaramente discriminatori e per quelli disciplinari risultati privi di fondamento alcuno, secondo tipicizzazioni ulteriori rimandate ai decreti delegati. Chi mai volendo licenziare potrebbe impegolarsi in queste tipologie potendo adagiarsi sull’andamento economico dell’impresa? Qui si colpisce non solo il diritto al lavoro del licenziato, ma anche il ruolo della magistratura nell’ intervento per reintegrare tale diritto. Due piccioni con una fava. Neanche il nemico per eccellenza dei giudici, Berlusconi, avrebbe potuto tanto.
Nel frattempo Squinzi può sognare, si stropiccia gli occhi, ottiene più di quanto pretendeva e sperava. Non ha neppure avuto bisogno di chiederlo. Anzi, Squinzi aveva combattuto per la presidenza della Confindustria contro Bombassei, dichiarando proprio che l’articolo 18 non era una priorità.
Intanto Pier Carlo Padoan aveva già scritto la sua lettera alla Commissione affinché fosse indulgente nel valutare i conti della legge di stabilità. Il giudizio definitivo sarà a marzo, ma intanto il governo si salva, anche grazie alla approvazione del Jobs Act che, secondo il nostro ministro dell’economia, garantirà una ripresa dell’economia e il sostegno al sistema pensionistico. Come ciò possa avvenire a colpi di precariato, che il decreto Poletti e il Jobs Act stesso ampliano a dismisura, è un mistero da rimandare al mittente.
La novità tanto sbandierata è il famoso contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Le modalità della articolazione di queste tutele sono ancora ignote, perché rimandate al testo di decreti delegati che eventualmente passeranno solo dalle commissioni parlamentari — ma non dall’aula — per un parere non vincolante. Tuttavia è fin d’ora scarsamente credibile che un padrone assuma con questa forma, quando può utilizzare, grazie al decreto Poletti, contratti a termine uno in fila all’altro senza doverne motivare la ragione. Paradossalmente, ma non troppo, proprio il contratto indeterminato a tutele crescenti spingerà ancora di più l’acceleratore sulla totale precarizzazione dei rapporti di lavoro per i nuovi assunti.
Fare sindacato e costruire una nuova coalizione sociale per una nuova sinistra sarà più difficile, ma ancora più necessario ed urgente. Una dimensione europea è indispensabile poiché il sistema non sopporta legislazioni nazionali protettive dei diritti e forme contrattuali che vadano al di là del singolo gruppo o azienda. Jobs, più che voler dire lavori, è un acronimo: Jumpstart Our Businesses (come l’omonimo americano del 2012) cioè «mettiamo in moto le nostre imprese». Di contro, quel popolo di sinistra orfano di una vera sinistra popolare ritrovatosi in piazza il 25 ottobre e nelle occasioni successive, si rimette in moto per uno sciopero generale, dopo tanti anni. Questa sarà la risposta.