«Da Taranto a Brindisi, dalla Sardegna a Brescia: il Milleproroghe fa slittare ancora l’obbligo di stare nei limiti di emissione. Dovevano entrare in vigore nel 2008».
Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2016 (m.p.r.)
Il cosiddetto “codice dell’ambiente” in giuridichese sarebbe il decreto legislativo 152 del 2006. E, com’è intuitivo, è entrato in vigore dieci anni fa. Uno dei suoi articoli - recependo una direttiva europea - pone dei limiti alle emissioni dei cosiddetti “grandi impianti di combustione”, in sostanza centrali di produzione dell’energia con una capacità superiore ai 50 megawatt. Non sono, a detta degli esperti, limiti da talebani dell’ambientalismo: basti dire che sono stati scritti a Bruxelles, dove le lobby contano qualcosa. Eppure, nonostante le soglie tengano nel dovuto conto il profitto delle imprese, dieci anni non sono bastati a farle entrare davvero in vigore: nell’ultimo decreto Milleproroghe, infatti, c’è l’ultima di una lunga serie di rinvii per i “grandi impianti” costruiti prima del 2006, cioè quasi tutti.
Detto in parole povere, potranno continuare a non rispettare i limiti ancora per tutto quest’anno. Il meccanismo è tortuoso, ma non difficilissimo da capire. Il “codice dell’ambiente” concedeva già alle grandi centrali un paio d’anni per mettersi in regola: dal 2008 tutti entro i limiti, per carità. Intanto individuava una serie di deroghe, che andavano concertate con “l’Autorità competente”, che poi sarebbe l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) del ministero guidato da Gian Luca Galletti.
E qui arriva il Milleproroghe 2016, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 30 dicembre: ovviamente si riallaccia al “permesso di inquinare” precedente, che scadeva a fine 2015, e lo estende al 31 dicembre di quest’anno. Per chi? Per tutti “i grandi impianti di combustione per i quali sono state regolarmente presentate, alla data del 31 dicembre 2015, istanze di deroga” in attesa della “definitiva pronuncia dell’Autorità competente”. A questo punto va notata la finezza dell’operazione: in attesa che Ispra decida sui livelli di emissioni di queste grandi centrali - vuoi per ritardi suoi, vuoi per incompletezza della documentazione allegata, vuoi per il destino cinico e baro - la proroga è concessa a chi ne abbia fatto richiesta entro il 31 dicembre, cioè un giorno dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto e addirittura otto giorni dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri (avvenuta il 23 dicembre).
Pare difficile, insomma, che qualcuno ne sia rimasto fuori. Certo, spegnere le centrali non è una bella cosa, ma quei limiti sono scritti nero su bianco dal 2006: tempo per mettersi in regola ce n’era. Se poi si mettono in fila un po’ di nomi di quelli che potrebbero ottenere la “licenza di avvelenare l’aria” oltre il consentito, la faccenda si fa allarmante: c’è un bel pezzo dei grandi inquinatori d’Italia. Nella lista, per dire, ci sono le centrali a carbone. La sola Enel – a stare al sito di Assocarboni – ne ha otto sparse per l’Italia: da Genova al Sulcis, da Marghera all’Umbria, da Torrevaldaliga Nord (lì vicino c’è pure un impianto Tirreno Power a olio e gas naturale) alla “Federico II” di Brindisi sud, che un rapporto Legambiente considerò la centrale più inquinante d’Italia per emissioni di Co2 e che un recente studio di tre ricercatori del Cnr (pubblicato sul l’International Journal of Environmental Research and Public Health) indica come responsabile di 44 morti evitabili l’anno.
Va ricordato almeno che pochi chilometri più a nord, sempre nel territorio di Brindisi, c’è anche la centrale di Edipower, società controllata dalla multiutility dei comuni di Milano e Brescia, A2A, che ha due impianti che usano (anche) carbone a Brescia e Monfalcone. E ancora. A carbone andava anche la famigerata centrale di Vado Ligure, proprietà di Tirreno Power (cioè i francesi di Gdf Suez, Sorgenia di De Benedetti e altri), finita al centro di un’inchiesta per disastro ambientale e il cui destino industriale non è ancora chiaro. E, comunque, non di solo carbone vivono i “grandi impianti di combustione ”: vecchi inceneritori; le centrali del polo petrolchimico siracusano (Augusta, Priolo, Melilli); la Sarlux della famiglia Moratti a Sarroch, nel sud della Sardegna, che brucia scarti della lavorazione del petrolio (e per farlo ha usufruito per anni degli incentivi per le “energie rinnovabili”).
La lista potrebbe continuare, ovviamente, ma ci limiteremo a citare un solo caso. Nella lista dei “grandi impianti di combustione” di cui Ispra monitora le emissioni c’è infatti anche la centrale termoelettrica dell’Ilva di Taranto, riacquistata qualche anno fa da Edison, che l’aveva comprata negli anni Novanta, all’epoca delle privatizzazioni. L’impianto serve l’acciaieria Ilva, ovviamente, e rivende al Gse (Gestore dei servizi energetici) l’eccedenza. Non se ne parla tanto per dire: Greenpeace, in un report del 2012, rivelò che su 19,7 milioni di tonnellate annue di anidride carbonica emesse dall’acciaieria, 7,5 milioni di tonnellate erano responsabilità delle due centrali termoelettriche interne. Tutto prorogato, tranne il diritto (costituzionale) alla salute.