la Repubblica, 7 gennaio 2017 (c.m.c.)
La Festa del Tricolore o Giornata nazionale della Bandiera del 7 gennaio, messa lì dopo la befana, come una scomoda pasquetta laica, è stata istituita per legge nel 1996. Essa recuperava, alla vigilia del secondo centenario del tricolore della Repubblica cispadana, un’intuizione di Carducci, che il 7 gennaio 1897, aveva festeggiato il natale del “santo tricolore”, con la sua inconfondibile retorica («Noi che l’adorammo ascendente in Campidoglio, noi negli anni della fanciullezza » ecc. ecc.).
La legge arrivava dopo i decenni nei quali la bandiera era rimasta a disposizione di nostalgie di destra ed entusiasmi calcistici (“forza Italia”). E non prendeva certo in considerazione la storia del termine, dell’oggetto e delle sue valenze. Il termine, infatti, nasce dalle “bande” longobarde e indica per metonimia gruppi di soldati o cavalieri identificati dal loro drappo.
Ma l’origine militare dell’oggetto è più antica ed è araba. Inizia con al-Uqab — la bandiera tutta nera come la pupilla dell’aquila — usato del Profeta. Il califfato immenso degli Omayyadi adotterà la bandiera bianca, a cui si opporrà negli scismi dell’islam quella di nuovo nera degli Abbasidi e quella verde di Alì.
Durante le crociate questi vessilli monocromatici si pubblicizzano come supporti per i grafemi del Corano o i segni della croce e s’alzano per chiedere al vento — il vento è di Dio — un segno di benevolenza per la propria guerra santa.
Da qui la bandiera entra nella storia occidentale: oggetto di culti patronali, segno delle signorie, pegno di onore e disonore militare, diventa una tavolozza di costruzioni grafiche complesse come quelle della Union Jack, e della bandiera della Continental Army della rivoluzione americana. Ma sale lo scalone dell’imagerie dello Stato nazionale moderno con una decisione cromatica del il 17 luglio 1789. A Parigi, per annunciare il ritorno del re in città, la guardia civica aggiunge infatti al rosso-blu della sua coccarda il bianco, colore della monarchia.
Quel distintivo, appuntato da Jean-Sylvain de Bailly al cappello di Luigi XIV, alza il sipario sull’ideologia “tricolore”: analogo cromatico della triade liberté- egalité- fraternité, segno di cittadinanza, bandiera dei reggimenti. Nella scia rivoluzionaria napoleonica nasce a Reggio Emilia il tricolore del 1797 oggi celebrato come progenitore della bandiera nazionale a bande orizzontali, o quello a quadrati della Repubblica d’Italia del 1802, evocato oggi dallo stendardo quirinalizio.
La modernità iscrive la bandiera in una civil religion dalle molte varianti. In America il giuramento alla “mia bandiera” composto nel 1882 dal pastore Francis Bellamy, fa delle stelle e strisce un pegno di cittadinanza da onorare o da bruciare, come faranno i renitenti alla leva del Vietnam.
In Europa l’ideologia dei colori “nazionali” unifica le transizioni istituzionali e permette, come fa Carducci, di inventare “il natale della Patria” smussando gli spigoli della storia (di tricolori ce n’erano prima del 1797, come quello indossato da Zamboni e De Rolandis, giustiziati dal boia del papa nel 1794, o di più esatti come quello della Giovine Italia del 1831, o di più epocali come quello di Carlo Alberto del 23 marzo del 1848). Ma, come ha spiegato lo storico Roberto Balzani, il problema non era filologico: serviva un tricolore “pre-esistente”, per saldare l’antica unità culturale delle inconciliabili varietà italiane alla recente unità politica. Un’operazione non indolore: la Chiesa odiava il “cencio tricolore”; i socialisti avevano la bandiera rossa che, come diceva un canto mazziniano, “la triunferà”; e chi patì l’orrore della guerra e il latrocinio fascista dello Stato non ne aveva un bel ricordo.
E se un simbolo non è un oggetto ma un rapporto, come insegna Raymond Firth, il tricolore esprime il vincolo di cittadinanza con uno Stato che delude figure molto diverse fra loro. Delude gli intellettuali che Croce irride scrivendo nel 1912 dei «moralisti da caffè o da farmacia annunziare che l’Italia sta per disgregarsi economicamente o politicamente o dissolversi nella corruttela e essere trascinata in una guerra, che sarà la sua fine come Stato e come Nazione». Delude coscienze vigili come quella di Arturo Carlo Jemolo che alla fine della guerra capisce come il fascismo abbia lasciato nell’aria una «miseria morale» che «residua nell’acidità meschina» di quelli che «dovunque vogliono vedere la tara, il sudicio, che avranno rancore ed avversione per le più alte figure ». E delude Ciampi che da vecchio dice «non è il paese che sognavo», dopo aver speso la vita per renderlo meno peggio.
La differenza fra ciarlatani e vigilanti non sta nella delusione, ma nella scelta di rispondere con le chiacchiere o col pensiero. E c’era pensiero alla Costituente nell’adozione del tricolore: il pensiero delle molte formazioni partigiane che avevano recuperato, levando lo stemma sabaudo con le forbici e sostituendolo con i propri simboli in una guerra civile; il pensiero degli internati che avevano patito nei campi di concentramento; degli uccisi dalla guerra e dalla Shoah; della divisione istillata goccia a goccia dal fascismo.
Quel tricolore non serviva a coprire una continuità che evadesse la colpa, non a mimare con la stoffa una univoca “identità”, che è il surrogato ideologico di chi non sa comprendersi nella irriducibile complessità dell’essere: ma a pensare un patriottismo costituzionale — ben prima che Habermas lo teorizzasse — fatto di diritti, di doveri e di libertà. Che sono la cosa che, senza assentarsi dal lavoro (dice la legge), vale la pena di festeggiare.