la Repubblica, 22 febbraio 2017
A MENO di tre mesi dall’elezione presidenziale, il centrosinistra francese non è meno diviso di quello italiano. Tuttavia il dibattito offre elementi concreti quasi del tutto assenti nelle cronache delle eterne convulsioni che dilaniano il Pd. Le Monde ha appena pubblicato il programma di Jean-Luc Mélenchon, rivale del candidato ufficiale del Partito Socialista, Benoit Hamon. Entrambi parlano il linguaggio di una sinistra piuttosto tradizionale e le loro ricette suscitano le riserve degli economisti. Tant’è che il pragmatico centrista Emanuel Macron, europeista convinto, li ha superati di slancio nei sondaggi. Quel che conta, però, è lo stile di un dibattito pubblico fondato su proposte chiare, benché spesso discutibili.
Al netto della propaganda e delle semplificazioni, il conflitto fra le due sinistre in Francia ha un senso e una logica. Ci sarà poi tempo al secondo turno (niente da spartire con il ballottaggio del nostro ex Italicum) per far convergere i voti sulla figura che si ritiene meno distante dai propri convincimenti. Vale per eleggere il capo dello Stato non meno che i membri dell’Assemblea nazionale. Questa tensione è quasi del tutto assente a Roma, dove si consuma la crisi del Pd. Un rito partitico e trasformista che sembra aver allargato il fossato con l’opinione pubblica. Per cui resta sul tavolo la domanda su cui insiste Emanuele Macaluso, forte della sua conoscenza di vizi e limiti della sinistra: «Qual è l’asse politico- culturale del Pd?». Nessuno lo sa con precisione.
Dopo le giravolte e i proclami di Michele Emiliano («sarò come il Che»), nel mezzo di una stentata scissione che non entusiasma nemmeno i suoi interpreti, all’indomani del generico impegno per una “rivoluzione socialista” sottoscritto da Enrico Rossi, ecco il segretario del Pd che parte all’improvviso per la California — dove visiterà certi impianti fotovoltaici — affermando: «Siamo dispiaciuti ma andiamo avanti». Con ciò confermando di considerare la spaccatura del suo partito più un bene che una disgrazia. Certo non il “suicidio” di cui parlano Prodi ed Enrico Letta. Eppure i primi sondaggi (“Porta a Porta”) indicano che gli elettori del Pd sono parecchio delusi, se è vero che il consenso alla lista risulta in caduta al 22-23 per cento. Plausibile che non tutti i voti in fuga stiano confluendo sull’arcipelago di sigle a sinistra del partito renziano: molti elettori intendono manifestare semplicemente il loro disagio, il loro disincanto. Il che rende lo scenario ancora più oscuro.
È evidente che le macerie del Pd hanno prodotto due correnti di pensiero. Da un lato, chi ritiene irreversibile il danno e fa capire di voler cercare le vie di un “nuovo Ulivo” (ovviamente il federatore non potrà essere Renzi), pur essendo modi e tempi dell’operazione avvolti nella nebbia. Dall’altro, chi intuisce l’inizio di una nuova storia. Il segretario è il capofila di questa tendenza: vede se stesso come il Blair o il Macron italiano. Ma dovrebbe rendersi conto che la proposta del Pd è al momento poco convincente per un numero crescente di italiani. Non esiste una legge elettorale, il rapporto con l’Europa è contrastato e nella prossima legge finanziaria occorrerà raccogliere svariati miliardi di euro per tamponare le falle del bilancio. Tutto ciò mentre la capitale d’Italia è nella paralisi per la serrata corporativa dei taxi appoggiata dai Cinque Stelle.