la Repubblica, Affari e Finanza, 29 maggio 2017
L'ultimo stop in ordine di tempo è arrivato giovedì scorso: due sentenze del Tar del Lazio hanno fatto saltare cinque delle venti nomine di direttori di grandi musei statali, mettendo a repentaglio una riforma che stava funzionando bene. Non c'è giorno o settimana in cui l'elenco degli altolà disposti in Italia dai giudici amministrativi di primo e di secondo grado non si arricchisca di un nuovo caso. Sotto la loro scure cadono uno dopo l'altro lotti stradali e concorsi pubblici, riforme bancarie e lavori di messa in sicurezza di scuole e ospedali, bonifiche di terreni e assunzioni di infermieri.
Rafforzare il personale che lotta ogni giorno contro l'evasione fiscale è cosa buona e giusta: peccato che negli ultimi tredici anni il Tar del Lazio e il Consiglio di Stato abbiano bloccato o sospeso tutti e tre i concorsi che l'Agenzia delle Entrate aveva disposto per assumere centinaia di dirigenti. Basta avere un po' di buon senso per capire che le mastodontiche navi da crociera non devono passare a pochi metri da Venezia, ma basta una pronuncia del Tar del Veneto all'inizio del 2015 per annullare l'ordinanza con cui la Capitaneria di Porto aveva limitato il loro passaggio nel canale della Giudecca e nel bacino di San Marco. Valorizzare o quanto meno evitare che cada a pezzi il nostro patrimonio storico-artistico è un impegno difficilmente contestabile. Eppure capita che all'inizio del 2016 il Tar della Campania sospenda i lavori nella "Regio I" di Pompei in seguito al ricorso di un'azienda esclusa dalla gara, e che li sblocchi solo quest'anno, guarda caso pochi giorni dopo il crollo del muro di una delle Domus romane.
L'Osservatorio Nimby Forum (dove Nimby è l'acronimo inglese per lo slogan "non nel mio cortile") ha calcolato che più di un terzo delle 342 opere bloccate in Italia ha ricevuto almeno uno stop da Tar e Consiglio di Stato: si tratta di 122 impianti finiti nelle sabbie mobili dei ricorsi. Al primo posto, nell'elenco dell'Osservatorio, gli impianti energetici, seguiti da termovalorizzatori e biodigestori per i rifiuti, da strade e ferrovie per le infrastrutture. Il 37% di queste opere sono ferme da più di quattro anni.
Morire di diritto
L'immagine di un'Italia bloccata dalla giustizia amministrativa, dove non solo le opere pubbliche ma quasi ogni decisione politica è condannata a restare sospesa per anni o decenni, non è certamente nuova. Già qualche anno fa era una visione così nitida da indurre un politico misurato come Romano Prodi ad affermare, neppure troppo provocatoriamente, che l'abolizione dei Tar e del Consiglio di Stato avrebbe favorito la crescita del Pil. "Non possiamo morire di diritto amministrativo", scrive nel suo libro La lista della spesa l'ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, sfiancato dalla gragnuola di veti e ricorsi piovuti su ogni atto politico. In realtà, non è un problema che si possa risolvere con una semplice sforbiciata. Non è possibile privare i cittadini del diritto di difendersi dai possibili abusi della pubblica amministrazione: missione affidata appunto ai giudici amministrativi. L'obiettivo è salvaguardare questo diritto senza tuttavia bloccare l'economia di una intera nazione, senza creare quello stato di incertezza che paralizza imprese e famiglie e allontana gli investimenti esteri.
Finora però non è andata così: assistiamo tutti i giorni a occasioni di sviluppo sacrificate sull'altare del più astratto formalismo giuridico, del bizantinismo più esasperato. Malgrado i progressi realizzati negli ultimi anni, i ricorsi pendenti presso Tar e Consiglio di Stato sono ancora una massa enorme, quasi 240 mila nel 2016, con forte concentrazione al Sud, e quelli nuovi si mantengono ben sopra la soglia dei 60 mila annui raggiunta nel 2012 e poi addirittura superata. Sui tempi della giustizia amministrativa, il presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, ricorda che molto è stato fatto per ridurli: "Tra il deposito del ricorso e la prima decisione collegiale passano oggi 200 giorni, contro i 700 del 2010". Ed è di comune dominio la convinzione che la giustizia amministrativa sia comunque più veloce di quella civile. Più veloce eppure in assoluto ancora lentissima: secondo il Justice Scoreboard della Commissione europea, edizione 2017, se si tiene conto delle liti pendenti, ci vogliono mille giorni in Italia, ossia quasi tre anni, per arrivare alla fine del primo grado di giudizio amministrativo, un record in Europa. In Svezia, Ungheria, Bulgaria, Slovenia e Polonia bastano cento giorni. In Francia e Germania meno di 500.
A colpi di sospensive
Insomma, il fenomeno da noi presenta ancora tutti i crismi della emergenza. Ormai non c'è concorso pubblico, non c'è gara di appalto senza almeno un ricorso da parte di chi è stato escluso. E dal ricorso non di rado si passa alla sospensione temporanea da parte del Tar (che può durare anche mesi), cosicché quando arriva il giudizio (anche se è positivo) spesso è troppo tardi. Senza contare che poi si dovrà aspettare il verdetto del Consiglio di Stato che potrà sempre ribaltare la decisione del Tar. "La giustizia amministrativa è al timone della politica industriale del nostro paese - commenta Alessandro Beulcke, presidente dell'Osservatorio Nimby Forum - E' questo il dato che emerge dalle nostre rilevazioni. Riportare in seno al governo le decisioni sui progetti di interesse nazionale è la soluzione che da tempo invochiamo, come viatico per la semplificazione degli iter autorizzativi e per la riduzione dei contenziosi tra Stato e Regioni. La riforma del Titolo V della Costituzione - continua Beulcke - avrebbe rappresentato, da questo punto di vista, uno strumento potente in grado di realizzare una maggiore certezza del diritto, a beneficio di imprese, istituzioni e territori".
Ultimamente, soprattutto con il governo Renzi, si è cercato di porre un freno alla possibilità di aziende e privati di appellarsi ai Tar, e anche al potere dei tribunali stessi di sospendere i lavori più urgenti. Eppure, non si riesce ancora a porre fine ai casi di paradossale formalismo giuridico. Come quello raccontato da Giavazzi e Barbieri nel loro libro I signori del tempo perso.
Dal Palladio a Pompei
Bassano del Grappa, agosto 2015: il ponte degli Alpini, progettato alla fine del Cinquecento da Andrea Palladio, rischia di sgretolarsi. Governo e Regione Veneto stanziano 3,7 milioni per i lavori. Un'azienda di Treviso vince l'appalto, ma siccome una ditta della stessa cordata non riesce a farsi dare in tempo tutti i documenti dalla prefettura, l'incarico viene affidato alla seconda arrivata. L'impresa trevigiana fa ricorso ma il Tar del Veneto non dà la sospensiva. Inizio lavori previsto per il 2 maggio 2016. Nuovo ricorso al Consiglio di Stato che a sorpresa blocca i lavori almeno fino al giudizio di merito del Tar. Il quale alla fine dà ragione alla prima azienda. E' passato più di un anno, il ponte per fortuna non è crollato ma avrebbe avuto tutto il tempo per farlo. Così come invece è accaduto, dopo un anno di veti e contro-veti, al muro della Domus del Pressorio di Pompei.
Il nuovo codice appalti dovrebbe d'ora in poi impedire casi come questi, ma tra il dire e il fare c'è di mezzo come sempre l'interpretazione giuridica. E così, come spiega il presidente dell'Anac Raffaele Cantone, ci sono imprese che ricorrono al Tar solo perché puntano ad avere con il risarcimento danni per l'esclusione da un lavoro, più di quanto avrebbero ottenuto realizzandolo. E cita una grande impresa del Nord che, seguendo questa strategia, è stata risarcita con 21 milioni.
Le proposte di Bankitalia
Infermieri e 007 del fisco
Alle decisioni sulle materie più o meno strategiche, si accompagnano poi migliaia di micro-verdetti talvolta bizzarri, come la sospensione del divieto di attività dei centurioni nel centro di Roma, o come lo stop all'ordinanza con cui il Comune di Cervo Ligure aveva disposto l'abbattimento dei cinghiali. E così questo gigantesco labirinto nonsense fatto di ricorsi, sospensioni e annullamenti acquista anche un carattere grottesco.
La riforma che non arriva