Due signori. Tutt’e due comunisti "aristocratici" (il personaggio che rievochiamo lo era di nascita e il nostro intervistato prima di accettare la tessera del Pci si chiese candidamente: «Come posso io che possiedo 200 cravatte?», sentendosi rispondere che poteva dal momento che il poeta Aragon ne possedeva il doppio). E grandi innovatori televisivi. Tre cose in comune tra Nanni Loy e Ugo Gregoretti. Un’altra è Fregene, cara ai cinematografari, dove il 21 agosto di dieci anni fa Loy fu colto da infarto e Gregoretti, con la compagna di Nanni Elvira, fu il primo a tentare invano di soccorrerlo. Ugo Gregoretti (classe 1930, cinque anni meno di Loy) ricorda l’amico cominciando dall’episodio che ne fece un personaggio popolarissimo. E svelando un altro punto di contatto
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Nanni Loy |
«L’ho conosciuto dopo aver fatto il mio primo film nel ‘61, I nuovi angeli. Venni "scoperto" in virtù di una rubrica che tenevo in tv, Controfagotto. Sull’onda del suo successo e della novità che rappresentava il produttore Alfredo Bini mi propose di fare un film. Mi trovai così promosso regista di cinema, e conobbi Nanni. Di lì a poco Angelo Guglielmi reduce da Londra con sotto il braccio il "format" - si direbbe oggi - della candid camera propose a me Specchio segreto. Risposi che sarei stato troppo riconoscibile per via di Controfagotto, mentre la formula si fondava proprio sulla irriconoscibilità del "provocatore". Venne allora in mente a entrambi Nanni, che accettò circondandosi di collaboratori di talento come Giorgio Arlorio e Fernando Morandi».
Ha rivelato un retroscena...
«Non l’ho mai raccontato. Evidentemente però l’affinità elettiva tra noi due è rimasta tanto legata a quel fatto che ancora oggi, con mia frustrazione, c’è chi incontrandomi mi dice: lei ha fatto tante belle cose ma nessuna ha eguagliato quel cornetto intinto nel cappuccino degli altri. E, non vorrei apparire irriverente, quando Nanni morì e fu allestita la camera ardente in Campidoglio, mentre scendevo la scalinata incrociai una donnetta che mi disse a bruciapelo: ma come, lei non era morto?».
Avete entrambi riversato nella televisione lo spirito, la sensibilità della commedia cinematografica italiana.
«Lui certamente, veniva da quel cinema. Io ero un redattore, anzi un praticante del telegiornale che sognava di diventare regista di cinema e aveva un occhio di riguardo per la commedia all’italiana. Il mio Controfagotto conteneva materiali equivalenti. E perfino quando ho girato Apollon sull’occupazione di una tipografia gli operai romani che recitavano se stessi erano di scuola sordiana. In Nanni c’erano già molte esperienze, in me la contaminazione da giornalistino televisivo che applicava i moduli della commedia ai suoi "pezzi". Impostavo le interviste come se fossero sketch, parenti poveri di un film».
Il modello di Specchio segreto e la successiva evoluzione (o involuzione?) della formula candid camera nella tv italiana.
«Specchio segreto si avvalse subito di una componente non so se già presente nella sperimentazione anglosassone anteriore: autori e sceneggiatori che venivano dal cinema, Nanni per primo. E di una comicità, di un umorismo che andavano oltre l’invenzione di gag e rimandavano a uno spaccato antropologico e sociale. Uno spessore mai visto prima, né tantomeno dopo. Pensi ai livelli di stupidità di oggi e agli abissi di faciloneria provocatoria ma stolta, vacua. La forza e la classe di Nanni erano nel non essere mai offensivo pur essendo così pungente. Un meccanico autocontenimento faceva sì che quando si avvicinava troppo al confine della presa per il culo scattassero la pietas, la simpatia, l’indulgenza affettuosa verso il malcapitato. Tra i molti primati di Specchio segreto - oltre a quello cronologico e a quello qualitativo nel far tesoro sia del cinema civile e di denuncia che della commedia all’italiana, nel farsi ritratto di un paese con le sue contraddizioni e tic e con la sua straordinaria varietà umana - ce n’è anche un altro. Si scoprì lì la famosa "liberatoria": cioè, dopo aver "incastrato" le persone a loro insaputa, bisognava ottenere il permesso per andare in onda. E il bello è che i rifiuti furono pochissimi, la stragrande maggioranza si fidava e firmava al volo».
Va di moda rimpiangere la Rai di Bernabei. Ma è vero che quella tv così governativa, prudente, bacchettona, consentiva spazi anticonformisti come Specchio segreto.
«Più che "di Bernabei" parlerei di Rai monopolio. Sentivamo la responsabilità del nostro ruolo. Sia pure sotto il tallone di ferro della censura democristiana eravamo severamente invitati a fare le cose bene e a scoprire dove stesse di casa l’araba fenice dello specifico televisivo. Contribuirono pochi registi cinematografici che, come Mario Soldati, portarono la spregiudicatezza del cinema nell’inchiesta televisiva. Miei maestri sono stati i tecnici, sia i vecchi tecnici della radio che i nuovi che dal cinema erano passati alla tv optando per il posto fisso, e poi quel grande radiocronista che era Vittorio Veltroni: l’abilità era quella di costruire delle immagini sonore, ciò che ignorava la tradizione del documentario cinematografico italiano che disprezzava la tv. Inventammo le inchieste televisive aggiungendo con le voci lo spessore mancante al documentarismo "artistico". Le cose erano insomma più belle perché ogni dettaglio era teso a una qualità anche estetica. Con la fine del monopolio questo è finito. E dico che ha contribuito a renderci più perspicaci proprio la censura. Una ginnastica, una palestra. Studiare come assestare il cazzotto passando attraverso le sue maglie. Uno strumento pedagogico».
Ragionamento un po’ insidioso, non le pare?
«Io rimpiango la disciplina. So che oggi vediamo solo imbruttimento mentre allora c’era un’estetica. E la censura è stata come un’istitutrice, formativa. Nelle mani di chi ha il potere di scegliere, oggi del tutto incapace, potrebbe essere strumento di rieducazione: una bella censura a Maria De Filippi non sarebbe cosa sana?».