Mario Rigoni Stern è morto l’altro ieri sera ad Asiago, nel vicentino, dove era nato nel 1921 e dove era tornato a vivere subito dopo la guerra. Rispettando le volontà dello scrittore, la notizia della sua scomparsa è stata diffusa dai familiari soltanto ieri a funerali avvenuti.
«Son tornato vivo da una guerra. Ho avuto una buona moglie e bravi figli. Ho scritto libri. Ho fatto legna. Me basta e vanza. ‘Desso posso morir in pase». Così disse il vecchio quando andai a trovarlo l’ultima volta nella sua casa al limitare del bosco, sull’altopiano di Asiago. Era metà marzo, e lui stava in cucina sulla sedia a rotelle, un maglione di lana grezza addosso, davanti a un piatto di salsicce e patate con un bicchiere di rosso. Appena toccai la corteccia della mano - la stretta fu forte come sempre - sentii che non stava morendo, ma solo diventando bosco. Fuori era tutto primule e letame, le cinciallegre e i fringuelli sparavano trilli fenomenali, l’ultima neve splendeva, il disgelo marciava alla grande, tutta la natura si svegliava. Così ricordai quanto mi aveva detto un anno prima. «La primavera è la stagione giusta per partire, perché sai che la vita continua».
Ma per me il tempo del Mario era l’inverno. Quando nevicava, il primo pensiero era per lui. Ovunque fossi, cercavo la direzione dell’altopiano e dicevo tra me: il vecchio sarà contento, si sarà fregato le mani, avrà buttato altra legna sul fuoco. Insomma, Mario c’era, stava lassù, ed era bello saperlo. Era la garanzia che non tutto era perduto, la natura stava ancora nei binari. «Sono nato alle soglie dell’inverno - così esordisce il suo libro dedicato alle stagioni - e la neve ha accompagnato la mia vita. All’asilo infantile le suore ci avevano insegnato una canzoncina che diceva di un bambino che dormiva in una culla e di una vecchia che cantava, il mento sulla mano: «Nel bel giardino il bimbo s’addormenta / la neve fiocca lenta lenta lenta».
La Bianca Signora gli aveva portato via i compagni in Russia, ma non la odiava per questo. Quando turbinava in silenzio, usciva arruffato e felice, guardava la radura con quella foresta di capelli matti da giovanotto, barba gelata dal fiato, occhi umidi da cane pastore, poi andava a rovistare in legnaia. Per lui l’inverno era «la tavola grande dove si sta in tanti», gli sci in spalla, la dispensa piena, le corse e le capriole nella neve. Era soprattutto il tempo della scrittura, della memoria e del racconto. D’inverno vivi e morti si avvicinavano, il Sergente nella Neve tornava, le porte del cielo erano spalancate.
Aveva capito tutto: la montagna è l’ultimo baluardo, l’ultimo serbatoio di risorse in un mondo dilapidato. Sapeva che va difesa a ogni costo, e lui lo faceva: s’era buttato nella sfida con passione civile, a ottant’anni suonati, intervenendo sulla stampa nazionale contro la strategia dell’abbandono. «Il mondo che stiamo vivendo è fatto per consumare - ripeteva - ma consumando consumiamo anche la natura, e quindi l’uomo». Un giorno s’è augurato di «vivere abbastanza per vedere il mondo rinsavire un po’, con la fine degli sprechi, delle cose inutili, del chiasso, delle luci artificiali che nascondono le stelle». Senza il suo magistero morale, ora la battaglia per la sopravvivenza di quest’ultimo pezzo di mondo incontaminato diventa più difficile. Oggi non è solo la letteratura che perde un protagonista; è anche la montagna italiana che perde un difensore.
Mario nasce ad Asiago nel novembre del 1921, tre anni dopo la fine della guerra che ha devastato l’Altopiano. E’ quello il Grande Evento fondativo della sua immaginazione. Ha radici profonde; una storia di famiglia lunga mille anni, tutta lassù, tra i liberi Comuni dei Cimbri. Vive un’infanzia brada, in compagnia dei pastori delle malghe. A diciassette anni, va alla scuola militare alpina di Aosta, dove scopre la grande montagna. Ma è subito la seconda guerra, l’aggressione alla Francia e la campagna di Russia con le scarpe di cartone. Nella ritirata compie quello che definisce «il capolavoro della vita»: una notte parte dal Don con settanta alpini e cammina verso occidente nella bufera, sganciandosi dal suo caposaldo senza perdere nemmeno un uomo. Torna a casa, ma dopo l’8 settembre viene catturato dai tedeschi e spedito in un campo di lavoro in Masuria, a Nordest di Varsavia.
La prigionia non è solo il tempo della fame e del patimento. E’ anche il tempo della scrittura. Il suo cammino letterario comincia lì, in una baracca «buia, gremita e maleodorante» sui laghi gelati fra Polonia e Lituania, sotto un cielo pieno di stelle. Accanto al tavolaccio senza paglia che gli fa da branda, ha uno zaino con dentro fogli arrotolati che diventano il suo diario.
Come Primo Levi ad Auschwitz, si aggrappa alle memoria per non impazzire. Come Nuto Revelli in quegli stessi anni, capisce il valore immenso del mondo contadino da cui proviene. Dopo due anni, a guerra finita, torna a casa a piedi, viaggiando di notte e nutrendosi dei frutti del bosco, sorretto dal miraggio della sua piccola patria.
Dall’esperienza russa nasce il suo testo più famoso, Il sergente nella neve, che cinquant’anni dopo sarà trasformato in monologo teatrale da Marco Paolini. «I russi - racconterà all’attore - combattevano per le loro case, i tedeschi per il grande Reich, noi italiani per salvare la vita». Fa seguito Il bosco degli urogalli e soprattutto la Storia di Toenle, dove si narra di un contadino, pastore e contrabbandiere che trova nell’attaccamento alla sua terra l’unico possibile rifugio dagli sconvolgimenti della Grande Guerra che devasta l’Altopiano. Scrive perché la memoria non sia perduta: il Sergente è dedicato a quelli che non sono ritornati, Toenle ai racconti dei nonni, L’anno della vittoria alle sofferenze dei profughi, Le stagioni di Giacomo ai partigiani costretti a emigrare dopo avere ridato la libertà al Paese. E poi, recentissimo, Le Stagioni, dedicato alla natura. Un canto alla lettura ciclica del tempo, affine nello schema alle Georgiche di Virgilio.
Una vita piena, attaccata alla sua montagna. «Non potrei vivere in nessun altro luogo» diceva tra una sciata e una gita. Persino Asiago-paese era troppo grande e rumoroso per lui. Ha aspettato di avere ottantadue anni per andare a caccia di camosci la prima volta in vita sua e impallinare una bestia al primo colpo. Aveva una mira infallibile e nel bosco vedeva quello che gli altri non vedevano. Una notte di due anni fa ci trovammo a Jesolo per un evento letterario. Lui fece notte in allegria, cenando con le autorità locali in un casone sperduto della Bassa veneta, oltre la muraglia di cemento della Riviera, ma poi a un tratto disse: «Fioi, no vedo l’ora de tornar su in montagna». Era anarchico e partigiano nell’anima; si imboscava appena possibile e odiava la pianura perché c’era troppo rumore e troppa luce.
Era grande nella scrittura, ma ancora di più nella narrazione orale. Era figlio di quella cultura e aveva un periodare spiccio e concreto, fatto di cose semplici: la pioggia, la neve, la legna, le patate, le mele, il fuoco, la carta di un vecchio libro. Le evocava, ne sentivi la ruvidezza e l’odore. «La parola detta - spiegò in un incontro pubblico a Torino - viene molto prima della parola scritta. Ha un ritmo che si sposa con l’andatura dell’uomo, che è un animale nomade imprigionato dalla modernità». Come Claudio Magris, altro grande battitore di boschi e brughiere, anche per lui l’andatura era ritmo, metrica, dunque narrazione.
Lamentava: «Cinquant’anni fa si sentiva la gente cantare. Cantava il falegname, il contadino, l’operaio, quello che va in bicicletta, il panettiere. Oggi hanno smesso. La gente non canta e non racconta più».
Un giorno lo andai a trovare e mi accompagnò a piedi verso Malga Zevio, nella zona delle trincee raccontate da Emilio Lussu. Camminò sulle rocce dove erano morti migliaia di soldati, ascoltò il silenzio dell’Altopiano, interrotto solo dal ronzio dei mosconi. Poi disse: «Di questi tempi c’è troppo rumore, stiamo perdendo il senso delle parole, la loro forza terapeutica. Eppure l’uomo ha bisogno delle parole, sennò non le manderebbe a memoria. Primo Levi si salvò recitando la Commedia. Serbare il Verbo in petto gli impedì di diventare un numero e il segreto della parola fece la differenza tra i vivi e i morti». Disse che in Russia - che lui chiamava commosso «la mia Russia» - la gente andava a recitare sulle tombe dei poeti, e lì declamava, fremeva, piangeva, evocando parole dette chissà quanti anni prima.
Sentiva la sofferenza della natura per il surriscaldamento dell’atmosfera. Guardava continuamente il cielo, ascoltava il canto degli animali del bosco, controllava i movimenti degli animali. «Guarda - mi disse quell’estate, la tremenda estate rovente del 2003 - gli abeti sono in esuberanza, sono pieni di strobili e polline». Poi imitò il trillo di un uccello: «Le allodole - aggiunse - sono salite sopra i 1500 metri, lo capisci dal canto all’alba che non si sente più attorno al paese». S’era accorto che le zecche non c’erano più, e le vespe germaniche pure. I funghi erano scomparsi, le vipere invece si erano moltiplicate. C’erano «troppe ortiche», lamentò. «Se la politica non aiuta chi lavora su in malga, le erbe matte arriveranno fin dentro la piazza di Asiago».
«Spegnete la televisione, prendete un libro» disse a sorpresa un anno fa davanti a milioni di telespettatori nell’unico talk-show cui aveva accettato di partecipare. Non aveva paura di nessuno, e parlava volentieri soprattutto con i giovani. Sentiva l’urgenza di un messaggio da lasciare. A un raduno di cacciatori «gentiluomini» in Val Badia mi disse di essere ai ferri corti con la televisione, mezzo «volgare e banale». «Lo dirò un giorno ai loro direttori - sbottò - vi prego, tenetemi sveglio almeno durante il telegiornale». Fuori pioveva in modo impressionante sulle Dolomiti, e lui si sedette accanto al fuoco per raccontare. Evocò storie di preti-bracconieri e i favolosi racconti sulle battute di caccia della letteratura russa, tra le betulle del Nord, il suo albero preferito. Sobbalzando sulla poltrona, raccontò di un commilitone uscito allo scoperto dalle linee, sotto il tiro dei russi, per correre dietro a un volo di starne.
Chiamarsi Rigoni e morire in una contrada di nome Rigoni - Asiago è una rete di frazioni sparse sui pascoli - , vivere in una terra dove basta chiedere «dov’è la casa del Mario» per farsi indicare la strada, tanto il cognome è sottinteso, credo sia una grande fortuna in questo tempo di stradicamenti e meticciati selvaggi. Quando ci andai l’ultima volta, mi bastava nominare il Mario e la gente abbassava la voce, come per non disturbare l’evento misterioso che si compiva, come se tutto l’altopiano aspettasse col fiato sospeso la caduta della quercia e ogni alberello sapesse che l’equilibrio del bosco sarebbe mutato con la sua assenza. Di certo, la foresta lo chiamava, e non era una foresta qualunque, era quella che l’aveva visto nascere. La fine del Mario era davvero un inizio.
«No go paura de morir» disse con voce flebile. Ma le guance erano rosse come sempre, e nell’occhio stanco ardeva una luce febbrile. Continuò: «Mi avevano detto che non sarei arrivato a febbraio, e adesso è marzo. Non so se arriverò alle elezioni, ma mi piacerebbe che Quello Lì andasse a casa». Quello Lì era l’innominabile, il grande manipolatore, e la luce negli occhi erano i carboni ardenti della passione civile. Ero arrivato da lui con una coppia di amici che gli avevano portato un cesto di uova ruspanti, raccolte il giorno prima nel pollaio di casa. «Uova partigiane», dissero, mandategli dagli ultimi testimoni-protagonisti della Resistenza sulla Linea Gotica. Lui fece il baciamano a lei e diede la zampaccia a lui. Era contento. Poi disse: «Mi raccomando, non voglio pagliacciate ufficiali. Niente cori e discorsi. Che si sappia una settimana dopo».
Uscendo, ci fermammo nel soggiorno inondato di sole e bevemmo un bicchiere con la moglie Anna e il figlio Alberico, una montagna d’uomo, assessore all’ambiente del Comune di Asiago. Il Mario continuava a mangiare in silenzio, in cucina, e noi promettemmo di tornare, l’estate, a fare il giro delle malghe, «perché lassù si gioca una battaglia importante». Bisognava continuare il lavoro del vecchio, non mollare al cemento. Salutammo.
Avevamo già addosso il suo odore, i suoi scarponi e il maglione. Poi salimmo verso l’Ortigara, fin dove la neve bloccò la strada. Eravamo felici.