La Repubblica
Il politico gentiluomo che scelse il riformismo
di Nello Ajello
È morto ieri a Roma, all'età di novantacinque anni, Antonio Giolitti. Prima che l'età lo costringesse a chiudersi in un garbato silenzio, la sua presenza nella vita politica italiana è stata intensa e, a tratti, incisiva. Deputato comunista fin dai tempi della Costituente, nel 1957 uscì dal partito di Togliatti passando al Psi. In due riprese, nel 1963-'64 e nel 1970-'74, è stato ministro del Bilancio e della Programmazione economica nei governi di centrosinistra. Nel 1987 era stato eletto senatore come indipendente di sinistra.
Nipote di Giovanni Giolitti, sembrava vocato alla politica per tradizione familiare. La sua giovanile adesione al Pci apparve come un segno dei tempi. «Quanti cari nomi sento risuonare tra i giovani comunisti!», esclamava Arturo Carlo Jemolo in un articolo pubblicato sulla rivista fiorentina Il Ponte. Ed elencando gli eredi di queste dinastie famose - Giolitti appunto, Amendola, Calamandrei, Lombardo Radice - il grande giurista confessava: è anche per la loro presenza che, nei riguardi del comunismo, «io non riesco a sentire quell'avversione profonda» che «avvertivo di fronte al nazismo». Era il novembre del 1945. All'epoca Giolitti, trentenne, faceva parte di quell'ambiente culturale giovanile che Palmiro Togliatti considerava una sorta di lievito del Pci uscito dalla clandestinità. E nei decenni successivi, dopo il distacco da Botteghe Oscure, egli avrebbe continuato a rappresentare una voce viva della sinistra italiana. Percorrendone l'impervio tracciato. Esprimendo i suoi consensie dissensi con quieto coraggio. Assurgendo a modello di una " gentilhommerie" che è banale attribuire all'altro secolo.
Aveva partecipato, Giolitti, alla guerra partigiana, prima sul monte Bracco, in Piemonte, poi nelle valli di Lanzo, come commissario politico delle Brigate Garibaldi.
Ferito casualmente a una gamba, era passato in Francia per curarsi. Tornando a Roma dopo la Liberazione aveva ripreso, accanto all'attività di partito, il suo lavoro presso la casa editrice Einaudi. Gli avevano tenuto in serbo per due anni - così egli raccontava - il suo tavolo, «in una bella stanza dove lavorava Cesare Pavese».
Così cominciava la stagione più impegnativa per questo intellettuale che si era trovato «suo malgrado a fare politica per colpa della Resistenza». Sui ricordi dei suoi anni verdi, si profila l'ombra profetica del «grande nonno». In una lettera che Giovanni Giolitti inviò a suo figlio Giuseppe, padre di Antonio, il 10 maggio del 1915, si leggeva fra l'altro: «L'affrontare l'impopolarità è in alcuni casi il più assoluto dovere». Queste righe, Antonio le ha riprodotte ad apertura di un proprio libro, Lettere a Marta (così si chiama una sua nipote), una sorta di autobiografia pubblicata dal Mulino nel 1992. In realtà, il dovere dell'impopolarità Giolitti junior lo condividerà fino a farsene un abito esistenziale.
Roma, gli studi, un breve soggiorno in carcere per antifascismo, e poi la politica. Il Piemonte, teatro delle campagne elettorali e luogo di villeggiatura. Sono questi i luoghi di Antonio Giolitti. Gli amici di Roma e Torino popolano la sua vita. Fra i primi, quel gruppo di giovani che alla vigilia della guerra comincia a formare un'ossatura di "intellettuali organici" per ciò che sarà il Pci: da Bufalini a Trombadori, da Alicata a Ingrao. Poi, i colleghi di lavoro alla Einaudi: da Pavese a Balbo, da Muscetta a Giaime Pintor, da Bobbio a Venturi, da Calvino a Massimo Mila.
Fra gli incontri fatti in Piemonte, spiccano i compagni dell'avventura partigiana: Geymonat, Pompeo Colajanni, Giorgio Agosti, Mario Andreis. E infine, la villeggiatura al mare di Castiglioncello, dove Antonio entra in contatto con il clan D'Amico: una ragazza di questo cognome, Elena, diventerà nel '39 sua moglie. Gli sarebbe stato sempre caro Lele D'Amico, cugino di Elena. E altri due frequentatori delle estati al mare, Paolo Milano e Furio Diaz, sarebbero rimasti fra gli amici di una vita. La biografia di Giolitti è soprattutto il racconto d'un trauma: quello che deve affrontare, in politica, un uomo di sinistra dotato di un'onestà intellettuale che rasenta l'intransigenza. Il suo battesimo pubblico come polemista si colloca alla fine del '56, in occasione dell'VIII congresso del Pci. La sua figura è relativamente poco nota. Nelle cronache di quell'assise, il Corriere della Sera sente il bisogno di presentarlo ai lettori.
«L'onorevole Giolitti è un giovane quarantenne alto, bruno, elegante. Si dice che fosse uno dei giovani più cari a Togliatti». Ed ecco che questo comunista prediletto in alto loco afferma che, in definitiva, per il Pci, «si tratta di cambiare e di correggere», e di «cambiare anche gli uomini che non si possono correggere». È l'allusione più esplicita che sia risuonata nel palazzo dei congressi dell'Eur, benché pronunziata senza enfasi, senza apparente malanimo. E anche in seguito, le polemiche che l'abiura di Giolitti alimenterà non raggiungeranno mai l'apice dell'animosità. Quando il deputato piemontese esce dal Pci con una motivazione che investe l'intera politica del partito e che egli illustra nel saggio Riforme e rivoluzione, dai vertici comunisti non partono contro di lui quelle bordate "definitive" che hanno colpito altri dissidenti. In una lettera mai recapitata per un disguido, Togliatti gli chiede anzi un favore: avere con lui «un incontro» che preluda «a una migliore comprensione».
Ricucire con Togliatti e il suo partito? Una simile svolta non rientra nelle sue prospettive. Giolitti s'incammina ormai sulla «via del riformismo», man mano che la fede nella dottrina marxista lascia spazio, in lui, alla scoperta del New Deal rooseveltiano, delle idee di Keynese della pratica di governo in uso nelle socialdemocrazie d'Europa. Nel partito di Nenni, cui Giolitti aderisce, si parla, soprattutto ad opera di Riccardo Lombardi, di "riforme di struttura". Albeggia il centrosinistra. Giolitti e Lombardi vi formeranno un tandem operativo.
Programmazione: una prassi di cui Giolitti si sforza di dimostrare l'indispensabilità. E lo fa tra molti ostacoli. L'allarme suscitato nel mondo degli affari e l'insofferenza, da parte della Dc dorotea, nei confronti di «quello che viene giudicato uno spericolato zelo riformatore» decretano il fallimento dell'esperienza. Dopo l'insuccesso socialista alle elezioni del 1976, si entra nell'era craxiana. Nei governi che si susseguono, entra in ombra la politica di piano. Abbandonati gli incarichi di governo, l'«uomo della Programmazione» vive perciò relativamente appartato, parte di quell'ambiente che egli stesso definisce dei «senzatetto di sinistra». Il suo stesso staff, capeggiato da Giorgio Ruffolo, si vede allontanato dall'area ministeriale. Dal 1977 al 1985 Giolitti è a Bruxelles, membro italiano della Commissione delle Comunità europee. Il Psi lo ha deluso. Nella nuova gestione di Craxi scorge un'intolleranza non meno grave di quella sperimentata a suo tempo nel partito di Togliatti. Assiste al consolidarsi «una consensuale e sistematica prevaricazione dei partiti di governo sulle istituzioni». Craxi? «Ho smesso d'incontrarlo quando è andato a palazzo Chigi», dichiara Giolitti nel maggio 1987. Un mese più tardiè eletto senatore come indipendente nelle liste del Pci. È la sua ultima campagna elettorale. Da allora apparterrà a una sinistra «impaziente e insoddisfatta». Le sue ricomparse nella cronaca saranno, nella primavera del 2006, la visita che gli fa il presidente Napolitano, fresco di elezione al Quirinale, e, nell'estate, la dichiarazione, sempre di Napolitano, nella quale gli si dava ragione per aver assunto nel "fatale '56", una posizione severamente critica contro l'Unione sovietica e il Pci. F ino all'ultimo, rievocando la sua gioventù e maturità questo «timoroso riformista» (così amava definirsi) ha sempre usato un elegante understatement. Ciò che lo animava era il tentativo di passare «dall'illusione dell'utopia alle speranze del riformismo», senza smarrire il «rapporto sempre problematico tra efficacia della passione politica e coerenza con i valori etici».
Saranno pure state prediche da nonno. Ma è difficile ascoltare, in giro, parole più attuali.
Antonio Giolitti, i sorci e le riforme
di Giorgio Ruffolo
Sono stato legato ad Antonio Giolitti da una lunga fraterna amicizia. Ricordo ancora con emozione il giorno che lessi una sua recensione di un mio articolo sulla disoccupazione pubblicato su Moneta e Credito, ero un giovanotto, e ne fui molto fiero. Cominciò così, a partire da un successivo incontro alla Casa Einaudi, dove lui lavorava, e poi nel partito socialista dove lui era entrato dopo i fatti d'Ungheria, nella corrente della sinistra nella quale i «giolittiani» costituivano un gruppo particolare, si chiamava Impegno Socialista, tra il 2 e il 4 per cento degli iscritti al partito: più 2 che 4, se ricordo bene. E poi nell'esperienza di programmazione. Anni di impegno vero, tormentato ed esaltante al tempo stesso. Anni di grandi riforme, lo si può dire oggi che di riformismo non si fa che parlare, allora non se ne poteva neppure parlare, a sinistra, perché il riformismo era considerato poco meno di un cedimento al nemico, si doveva dire, per carità: riformatori, non riformisti.
Però le riforme, in quella stagione di centro sinistra, si fecero davvero. In quegli anni cambiò la scuola, cambiò il sistema pensionistico, si introdusse il sistema sanitario, si fece lo statuto dei lavoratori, si completò la grande rete autostradale, si costituirono le regioni. Gli uffici della programmazione si installarono in un grande corridoio dove enormi sorci inseguivano timidi gattini. Era il tentativo di inserire una strategia di progresso sociale e di equilibrio territoriale in uno sviluppo economico poderoso ma tumultuoso disordinato, iniquo. Erano sogni? Forse: diventarono incubi, quando le contraddizioni che si erano inserite nel contesto politico italiano, non corrette da una politica di programma, esplosero, in una congiuntura sempre più difficile. La sinistra, che è immemore, dovrebbe riflettere su quella esperienza: e soprattutto su quale dovrebbe essere il contributo di una cultura aggiornata a una progettazione politica che oggi brilla per assenza.
Giolitti era il rappresentante di una classe politica di cui si sono molto affievolite le tracce: quando politica e cultura diventavano parte di un solo messaggio. Con lui si poteva parlare di politica, naturalmente: ma anche di musica, della quale era particolarmente esperto, e di arte e di letteratura, e ci si poteva divertire scherzando, lasciandosi guidare dal suo stile ironico e arguto. In compenso, non ricordo di avergli sentito raccontare una sola barzelletta.
Egli resterà con me e per me, per il resto della mia vita, un modello di professione politica, nel senso weberiano, non del mestiere, ma della vocazione; prima che quella vocazione si identificasse, in modo così desolante, con il nudo potere, con il denaro, con la volgarità.