«».Il manifesto, 12 marzo 2015
Nella prefazione a questi due volumi [vedi riferimenti in calce] Stefano Rodotà scrive che Lucio Magri è stato uno dei protagonisti di questa stagione parlamentare di fine secolo. Una «bella stagione», aggiunge Rodotà, e debbo dire che la rilettura di questi testi suscita nostalgia: perché non solo nel caso di Lucio, ma per tutti in quell’epoca, ogni intervento alla Camera rappresentava un impegno, una riflessione, un esercizio di alto livello. Per questo, del resto, quegli interventi possono essere pubblicati dopo tanti anni.
Protagonista, dunque ma assai anomalo, perché all’inizio, nella legislatura ’76-’79, parte di un gruppo di appena sei deputati su 630 e segretario di un partito, il Pdup, che in quella coalizione elettorale – denominata Democrazia Proletaria – di deputati ne aveva solo tre. E però era in rappresentanza della sola opposizione, come si diceva allora, quando ancora si facevano distinzioni, “dell’arco democratico”.
Nel suo primo discorso parlamentare Lucio si era infatti trovato nella paradossale condizione di dover negare la fiducia a un governo sostenuto da una maggioranza quasi totale: il governo delle larghe intese dell’on. Andreotti. Anche questo dettaglio credo stia ad indicare (ed è bene ricordarlo in un momento in cui proprio di legge elettorale si sta discutendo) quanto importante sia il pluralismo parlamentare, una rappresentanza che esprima davvero tutte le anime del paese.
Che non bloccò affatto l’istituzione, ma consentì anzi inediti e stimolanti intrecci, penso innanzitutto al dialogo che si sviluppò fra il nostro attuale presidente della Repubblica — che davvero ringrazio per la sua presenza — e Magri, in occasione della assai conflittuale ridefinizione, nel 1993, della legge elettorale.
È una buona cosa rileggere gli atti parlamentari ed è una buona cosa che la Biblioteca della Camera sia impegnata a renderlo possibile con le sue pubblicazioni: perché si tratta della testimonianza più autentica e diretta di un periodo storico, e debbo dire che anche io, che pure ho vissuto da parlamentare quegli anni ’76-’99, rileggendo questi volumi sono stata aiutata ad approfondire la riflessione su quella stagione. Che ha peraltro rappresentato un passaggio epocale per il nostro paese, non a caso definito “passaggio dalla prima alla seconda Repubblica”.
Non un lamento impotente, ma la critica concreta all’autoreferenzialismo crescente dei partiti, alla loro incapacità di intendere quanto andava emergendo nella società attraverso i movimenti e indicando dunque la necessità non, come troppo spesso ora si fa, di offrire un’espressione diretta ad una indeterminata società civile sacralizzata e però frantumata e fatalmente subalterna alla cultura dominante, bensì un impegno a costruire quella che egli definiva «democrazia organizzata».
Non solo partiti chiusi in se stessi più rappresentanza delegata, ma anche una rete di organismi capaci di andar oltre la mera protesta e impegnati a imparare a gestire direttamente funzioni essenziali della società, così da ridurre via via la distanza fra governanti e governati (che poi è la base più salda della democrazia). E così colmare il solco che drammaticamente separa il cittadino dalle istituzioni.
Non a caso il Pdup fu un punto di riferimento per la crescita di queste reti che ebbero, — negli anni 70 — una particolare fioritura. Penso ai Consigli di fabbrica, a quelli di Zona, a movimenti come Medicina Democratica o Psichiatria, o nati attorno alle grandi questioni dell’assetto urbano e sociale.
Se la democrazia è solo questa sporadica consultazione, e non invece uno spazio deliberativo che ti rende partecipe e soggetto della costruzione di una società ogni volta innovativa, perché mai un giovane dovrebbe appassionarsi?
Il declino dei grandi partiti politici di massa ha lasciato un vuoto che dai tempi in cui Lucio ne denunciava i sintomi è diventato un oceano. Non li ricostruiremo tali quali erano (e anche loro, del resto, avevano non pochi difetti). Ma è importante tornare a riflettere sul senso della politica, — che non è ricerca di consenso, ma costruzione di senso — così come con questi discorsi, pur pronunciati in Parlamento e non a scuola, Magri ci spingeva a fare, per recuperare la politica, che poi è ricerca della propria identità nel rapporto con gli altri umani e non arroccamento sul proprio io nell’illusione di potersi salvare da soli.
Se non dovessimo riuscire a far capire quanto la lentezza della condivisione, — che è propria della democrazia – sia più preziosa della fretta, solo apparentemente più efficiente, del decisionismo, non ce la faremo nemmeno a far rivivere una vera Sinistra. Per questo sono davvero contenta — e con me tutti i compagni del Pdup — della sollecitazione che da questi testi ci viene per riflettere sull’oggi. E per aiutarci a discuterne con i più giovani.
La lucidità anticipatrice di Magri su questo come su altri temi — che è certamente stata una delle sue più significative caratteristiche — ha avuto una particolare incisività perché lui non era un profeta, un intellettuale separato.
In occasione della sua scomparsa, Perry Anderson, uno dei fondatori della autorevole New Left Review, ha scritto: «Lucio Magri non ha avuto uguali nel panorama della sinistra europea. È stato l’unico intellettuale rivoluzionario in grado di pensare in sintonia con i movimenti di massa, sviluppatisi durante il corso della sua vita. La sua riflessione teorica si è radicata realmente nell’azione, o nella mancanza d’azione, degli sfruttati e degli oppressi».
La ricerca, alla fine quasi ossessiva, del nesso fra teoria e militanza ha finito per essergli fatale. Nel 2004 Magri decise di porre fine alla nuova “Rivista” de il manifesto che era rinata nel 1999 sotto la sua direzione. Era una bella rivista. Ma Lucio non si rassegnava al fatto che mancassero i referenti sociali, non voleva essere solo un intellettuale che scriveva senza la verifica dell’azione politica. E poiché non vedeva nell’immediato le condizioni perché interlocutori consistenti si presentassero e che il dibattito politico in atto si sbriciolava in quisquilie, decise di cessare le pubblicazioni.
Furono motivazioni analoghe che lo condussero alla sua tragica decisione finale. «Non dico che la sinistra non rinascerà — ripeteva — ma ci vorranno molti anni e io sarò comunque già morto. Così come è il dibattito non mi interessa». Ma non era tuttavia pessimista nel lungo periodo. Come del resto prova il titolo del suo libro Il sarto di Ulm — oggi tradotto in Inghilterra, Germania, Spagna, Brasile, Argentina — titolo tratto da un apologo di Bertolt Brecht. Al sarto, che pretendeva che l’uomo poteva volare, — stufo dell’insistenza — il vescovo-principe di Ulm finisce per dire: «Vai sul campanile e buttati, vediamo se è vero quanto dici». Il sarto va e salta, e naturalmente si sfracella.
E però: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Il sarto, perché poi alla fine l’uomo ha volato. Ecco, diceva Lucio, per ora il comunismo si è schiantato, ma alla fine volerà. Noi continuiamo a provarci
A leggere Magri di fine anni 80 si incrocia l’Italia del 2015. Magri «indignato con il nuovismo che caratterizza lo scioglimento del Pci», non perché «non innovatore» ma perché «considerava un grave errore politico la retorica di un nuovo senza radici e senza futuro» (Crucianelli). Il bersaglio di ieri è il «nuovismo» occhettiano; ma le parole non calzano bene per «la rottamazione» renziana?