LaRepubblica, 28 ottobre 2015
spezzano equilibri plurisecolari. Così, quando riflette sulla società italiana, lo fa con consapevolezza di chi si misura con una questione — quella della continuità/ rottura tra il fascismo e l’Italia repubblicana — che è tipicamente storiografica. Schierandosi decisamente per la “continuità”, il suo riferimento è a una Democrazia Cristiana che «sotto lo schermo di una democrazia formale e di un antifascismo verbale, ha perpetuato la stessa politica del fascismo», dando vita a un «regime poliziesco parlamentare ». Il blocco sociale su cui si fondava il consenso democristiano era lo stesso del fascismo mussoliniano: la piccola borghesia e i contadini uniti al grande capitale. Identico era anche il cemento ideologico fondato sul cattolicesimo e su valori quali la moralità, l’obbedienza, la disciplina, l’ordine, la patria, la famiglia.
La tesi della “continuità” era in gran parte condivisa dagli storici di allora. A marcarne l’originalità fu piuttosto il film su Salò o le 120 giornate di Sodoma , del 1975. In quel caso davvero si spinse in territori che la stessa storiografia ufficiale aveva fino ad allora complessivamente ignorato, restituendo al fascismo la sua essenza biopolitica, attribuendogli un Potere in cui si incarnava il Male assoluto. In quella Salò, il Potere consumava la sua ultima, parossistica orgia e lasciava affiorare, senza più mediazioni ed orpelli istituzionali, la volontà di impadronirsi — attraverso il sesso — dei corpi dei propri sudditi; una volontà di dominio che era la diretta conseguenza di quella “politicizzazione della vita” attraverso la quale, come avrebbe sottolineato Agamben, nelle esperienze del totalitarismo novecentesco il corpo dell’individuo diventava la posta in gioco delle strategie politiche, la politica si trasformava in biopolitica: la nuda vita, l’esistenza biologica degli individui, fino ad allora confinata in una terra di nessuno, veniva inserita nel circuito della statualità, con la vita e la morte che non erano più concetti scientifici ma politici, occasione per l’esercizio di un potere che si saziava umiliando e profanando i corpi delle vittime.
Ma Pasolini “storico” fu originale anche per altri aspetti. Fu tra i pochi, infatti, ad accorgersi di una “rottura” ben più profonda, avvenuta nell’inconsapevolezza di molti. «La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa — scriveva, nel 1974 — Non c’è più dunque differenza apprezzabile… tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente, e quel che più impressiona, fisicamente, interscambiabili... I giovani neofascisti che con le loro bombe hanno insanguinato l’Italia, non sono più fascisti... Se per un caso impossibile essi ripristinassero a suon di bombe il fascismo, non accetterebbero mai di ritornare ad una Italia scomoda e rustica, l’Italia senza televisione e senza benessere, l’Italia senza motociclette e giubbotti di cuoio, l’Italia con le donne chiuse in casa e semivelate. Essi sono pervasi come tutti gli altri dagli effetti del nuovo potere che li rende simili tra loro e profondamente diversi rispetto ai loro predecessori». Con le piazze arroventate da uno scontro ideologico ancora tutto novecentesco, queste considerazioni suscitarono un inevitabile scalpore. Pasolini argomentava il suo pessimismo segnalando due “rivoluzioni”, quella delle infrastrutture e quella del sistema di informazione, avvenute proprio negli anni del boom. Le distanze tra centro e periferia si erano notevolmente ridotte grazie alle nuove reti viarie e alla motorizzazione; ma era stata soprattutto la televisione a determinare in modo costrittivo e violento una forzata omologazione nazionale. Il nuovo Potere, nonostante le sue parvenze di tolleranza, di edonismo perfettamente autosufficiente, di modernità, nascondeva un volto feroce e repressivo. «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili ad uniformasi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole... Ora, invece, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata ». Certo, erano giudizi eccessivi, disperati quasi. Pure oggi, alla luce di tutto quello che è successo dagli anni Ottanta, il pessimismo pasoliniano assume i tratti di una lucida profezia.