Il manifesto, 23 settembre 2015
Dopo una via crucis che avrebbe logorato qualunque altro governo nel mondo e che qui, invece, l’ha rafforzato. Volevano sterilizzare i loro lindi tavoli europei dalla presenza fastidiosa di un capo di governo non allineato ai loro voleri, e se lo ritrovano ora davanti, in questi stessi giorni, a quegli stessi tavoli, sopravvissuto al fuoco, a lottare per quello che ha sempre chiesto e che a luglio gli è stato negato: ristrutturazione del debito, abbandono delle folli politiche d’austerità, radicale riscrittura dei trattati, politiche redistributive, continuando a battersi lì per cambiare i termini del diktat «insostenibile» impostogli col ricatto e la minaccia a luglio. E insieme offrendo un punto di riferimento a tutte le forze che nello spazio europeo si battono per quegli obbiettivi.
Ed è questa la seconda ragione per gioire del risultato di Atene. Perché lì è nata, non più in embrione, ma ormai allo stato visibile, una sinistra europea, transnazionale e post-nazionale, dichiaratamente determinata a battersi nello spazio continentale della politica che viene, tendenzialmente maggioritaria perché impegnata a rappresentare l’enorme disagio che le politiche di questa Europa producono e a sfidare la «pratica del disumano» che le istituzioni europee contrappongono alla moltitudine sofferente che preme ai propri confini blindati. Sinistra nuova, diversa dai residui logori della vecchie social-democrazie, miseramente naufragate nella battaglia di luglio, fisicamente visibile sul palco di Piazza Syntagma dove si sono schierati i leader e le leader di Podemos e della Linke, dei Verdi tedeschi e del Partito della sinistra europea, stretti intorno a Tsipras in un patto che va al di là della tradizionale solidarietà internazionale, e che segna in potenza un «nuovo inizio».
Preoccupa, certo, nel quadro altrimenti confortante delle elezioni greche, l’alto livello dell’astensione. È, potremmo dire, il lato oscuro della forza, che i commentatori maligni di casa nostra non hanno mancato di sottolineare per tentare di ridimensionare il valore del risultato, pur essendo gli stessi che in ogni altra occasione ci avevano spiegato (ricordiamo l’Emilia Romagna, o le ultime regionali?) che è cosa normale, che le democrazie moderne funzionano bene così. Noi continuiamo a considerarlo, a differenza di loro, un grave problema, ovunque si manifesti, sapendo bene che, in particolare in questo caso, esso è sintomo di un fallimento, non certo dei greci (per i quali la notizia è tutt’al più l’altra, che abbiano continuato a votare a milioni e a crederci), ma dell’Europa. Della gabbia di ferro in cui ha chiuso i popoli, facendo di tutto per convincerli che la loro volontà (la «volontà popolare», appunto), non conta nulla. Che le regole che nessuno ha votato sono dogmi immodificabili. E funzionando così come una gigantesca macchina che erode e riduce ai minimi termini la democrazia, svuotandola di significato.
Indigna, d’altra parte, lo spettacolo, davvero indecente, della nostra stampa quotidiana. I commenti a caldo degli editorialisti embedded, impegnati in acrobazie spericolate per sostenere – sulla scia delle veline renziane — che la vittoria di Syriza e la sconfitta secca dei fuoriusciti di Unità popolare dimostrerebbe nientemeno che «non c’è spazio alla sinistra del Pd», come se Tsipras fosse Renzi (si sa benissimo che quel 12 luglio feroce Renzi era tra i ricattatori e Tsipras il ricattato, e nessuno può permettersi di nascondere la distanza abissale tra le politiche dei due, si tratti dei diritti del lavoro o dei rapporti con la Merkel). E come se, che ne so, Bersani e Cuperlo fossero Varoufakis (!). O Civati, Fratoianni e Ferrero Lafazanis. Sono, quei commenti senza pudore, la misura di quanto sgangherato sia il nostro sistema dell’informazione. Quanto servile, piegato ai voleri dei suoi tanti padroni, politici o economici. Ma soprattutto sono il frutto di una grande paura. Del timore che l’esempio greco possa diffondersi per contagio, e che cresca in Europa un’alternativa al sistema di privilegio di cui anche quel démi monde è parte.
Da quella «grande paura» dovremmo trarre uno stimolo. E una conferma della nostra possibile forza. Ad Atene, su quel palco europeo, la sinistra italiana non era rappresentata. Per il fatto che non c’è. O meglio: «non c’è ancora». Resta la grande attesa, sempre in costruzione, mai nella realtà. Non la si faccia prolungare troppo quell’attesa. C’è un grande lavorio, dal basso e non solo. Si discute di date, di eventi, di processi costituenti. Non facciamone un eterno Godot. Facciamo subito quello che dobbiamo fare: una sinistra capace di andare oltre i propri frammenti e di prendere in Italia e in Europa il posto vuoto che in tanti si aspettano che occupi. Chiunque rallentasse o ostacolasse questo processo, tanto più ora, si assumerebbe una responsabilità tremenda.