Il Manifesto, 23 settembre 2014 (m.p.r.)
Ora vediamo chi vuole cambiare davvero. L’iniziativa legislativa popolare che vuole assicurare il rispetto dei diritti fondamentali anche nelle fasi di crisi economica rappresenta una proposta di vera rottura con il passato. Non si limita a criticare l’introduzione del principio del pareggio di bilancio nella nostra Costituzione, si spinge a indicare una strada alternativa. La riforma costituzionale approvata nel 2012 quasi all’unanimità dal nostro parlamento è presto assurta a simbolo dell’incapacità della politica di governare i processi economici e finanziari.
S’è trattato di una risposta puramente ideologica (il neoliberismo come unica razionalità possibile) ad una crisi di sistema che ha continuato ad avvitarsi su se stessa. Ora, con la proposta di modifica di tre articoli della Costituzione, si vuole cambiare radicalmente il punto di vista per tentare di uscire dalla recessione, che non è solo economica, ma è soprattutto culturale. Non è una prospettiva velleitaria quella che si prospetta. Si radica, invece, nel solco del costituzionalismo moderno, riscoprendone le virtualità emancipatorie. È alla storia politica e sociale che bisogna ricominciare a guardare, da tempo offuscata dall’autoreferenzialità della politica incapace di contrastare la logica distruttiva del mercato speculativo. Occorre tornare ai diritti.
Persi nei fumi dell’ideologia, trascinati dal vento impetuoso del tempo, troppo a lungo abbiamo scordato che alla base del vivere civile, a fondamento del patto sociale, si pone il rispetto dei diritti fondamentali, non l’equilibrio finanziario. Se c’è una lezione da trarre dalla storia politica del costituzionalismo moderno è che la garanzia dei diritti deve essere assicurata, altrimenti la società civile «non ha una costituzione» (così esplicitamente nella dichiarazione del 1789), e si torna allo stato di natura dove prevale la legge del più forte (economicamente, oltre che militarmente). Solo l’hobbesiana protectio può legittimare la richiesta di oboedientia, solo il rispetto dei diritti può giustificare i doveri sociali. Nelle costituzioni del secondo dopoguerra questo dato fondativo delle società moderne ha portato ad affermare il principio di «indisponibilità» dei diritti fondamentali ed il primato della persona. Priorità da far valere anche sull’economia, soprattutto sull’economia, la quale non può essere rappresentata come espressione di un «ordine naturale», ma è anch’essa frutto di un «ordine giuridico». Dunque, manifestazione di scelte di politica economica che conformano un particolare assetto d’interessi, a discapito di altri. Opzioni — questo è il punto — che non sono completamente libere.
E’ il nostro sistema costituzionale ad avere individuando i principali limiti proprio nella «libertà, sicurezza e dignità umana», nell’esigenza di assicurare una «esistenza libera e dignitosa», nei «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». In questo senso può certamente affermarsi che in uno stato costituzionale «sull’economia prevalgono i diritti». Ed è entro questo contesto costituzionale che si alternano i diversi cicli economici, quelli più favorevoli e quelli meno.
È evidente, infatti, che l’espansione dei diritti richiede ingenti risorse economiche, pertanto da tempo si riconosce che i «diritti che costano» (praticamente tutti i diritti hanno un costo) sono finanziariamente condizionati. Ciò non toglie però che anche in una fase di crisi economica — soprattutto in fasi in cui le risorse sono limitate — diventa vitale assicurare una tutela privilegiata ai diritti fondamentali, i quali devono prevalere sulle garanzie prestate ad ogni altro interesse. Ed è questo il senso profondo che si pone a fondamento dell’iniziativa popolare. Essa rappresenta una rottura di continuità con il più recente passato che ha invece invertito le priorità tra diritti e economia, ponendo i primi al servizio della seconda. Nel 2012 questa pretesa ha assunto le vesti della revisione costituzionale con l’inserimento di un principio «sovversivo» (in senso strettamente etimologico) del sistema di garanzia dei diritti costituzionalmente definiti. Un principio che si è dimostrato fallimentare per le stesse ragioni dello sviluppo economico, oltre che per la garanzia dei diritti.
Non si tratta ora semplicemente di tornare indietro, bensì di sviluppare nel segno del cambiamento i diversi principi del costituzionalismo moderno. Ciò che si propone è un altro approccio alla revisione costituzionale; diverso rispetto da quello sin qui praticato da un ceto politico intento a smantellare progressivamente le conquiste di civiltà che la lotta per i diritti ha storicamente affermato e la nostra Costituzione ha giuridicamente imposto. Con questa iniziativa si vuol dimostrare che dalla Costituzione (dai suoi principi fondamentali) si può ripartire per trasformare la società e la politica italiana; che essa non è un ostacolo bensì il fattore di cambiamento più vitale.
Non servono molte parole per affermare un principio di cambiamento radicale. Anche in questo può plasticamente rinvenirsi una diversità di stile — che è anche di sostanza — con il revisionismo costituzionale che è alle nostre spalle. Si guardi a tutte le «grandi riforme» che, dalla Commissione bicamerale del 1993 ad oggi, hanno cercato di mettere le mani sulla Costituzione: un profluvio di parole senza la solidità di un principio. Si esamini l’attuale proposta in discussione di modifica presentata dall’attuale governo relativa al senato e al Titolo V: un insieme di disposizioni informi, spesso tra loro in contraddizione. Si leggano i nuovi articoli scritti dai neo-revisori costituzionali (dal ridondante art. 111 all’ingestibile art. 117): lunghi elenchi di incerto valore e difficile applicazione. E, infine, si confronti nel merito la formulazione ragionieristica e contabile del principio di «pareggio di bilancio» con quella proposta dall’iniziativa popolare: l’innovazione si sostanzia nell’eliminazione di tutte le controverse regole di equilibrio finanziario, sostituite dal limpido principio costituzionale del rispetto dei diritti fondamentali delle persone che deve conformare la legge di attuazione alla quale si rinvia per la definizione dei vincoli economici (compresi quelli di bilancio). Realisticamente non si esclude dunque che quest’ultimi debbano operare, si afferma «semplicemente» che questi devono operare nel rispetto del principio di tutela dei diritti.
È del tutto evidente – almeno per chi prende sul serio i diritti – che le costituzioni necessitano di essere attuate. Non basta cioè l’affermazione del principio (di prevalenza dei diritti fondamentali delle persone, nel nostro caso) perché esso possa ritenersi realizzato. La lunga lotta per l’attuazione costituzionale – che può assumere forme diverse e non tutte preventivamente determinabili – rappresenta il cuore di quel che potremmo chiamare il diritto costituzionale vivente. Non è possibile qui ricordare le molteplici forme che ha assunto la continua tensione tra costituzione e sua realizzazione. Ciò che deve però almeno essere chiarito è che anche la lotta per la realizzazione dei principi è assoggettata al diritto. Tant’è che sarà un giudice (la Corte costituzionale) e non la politica (il governo ovvero il parlamento) ad avere l’ultima parola.
La proposta di iniziativa legislativa popolare rappresenta dunque l’indicazione di una nuova rotta. Un percorso articolato che potrà essere imboccato solo se si saprà costruire un consenso diffuso, unicamente se verrà accompagnato da un’ampia, convinta e attiva partecipazione. Nulla garantisce infatti il successo. La raccolta delle firme necessarie per incardinare la discussione presso le camere, l’incerto seguito parlamentare, le inattuali maggioranze richieste per l’approvazione della legge costituzionale sono tutti ostacoli che si frappongono alla volontà di un cambiamento radicale dello stato di cose presenti. È però anche una grande occasione per risollevare il capo e tentare d’uscire dai sottosuoli ove le forze disperse della sinistra si sono rintanate. Un’oppor<CW-11>tunità per riprendere il filo di un discorso interrotto. Certo, può sempre dirsi che «avremo bisogno di ben altro», di una strategia complessiva, di soggetti sociali consolidati, di organizzazioni adeguate, di leader rappresentativi e autorevoli, di una società civile consapevole, di una cultura alternativa egemone, di una solidarietà e un riconoscimento collettivo. È vero, avremmo bisogno di tutto questo. E in assenza di tali presupposti tutto è più complicato. Ma anche per questo è urgente ricordare che la garanzia dei diritti fondamentali delle persone e la fissazione di limiti ai poteri dell’economia e della finanza rappresentano valori indisponibili entro uno stato di democrazia costituzionale. È necessario iniziare a costruire un’altra idea di società civile, in cui il mercato si ponga al servizio dei diritti. La proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare è solo un primo movimento di una ancora inesplorata strategia complessiva; un piccolo passo che però può aprire ad un radicale cambiamento di rotta. Credo ci si possa provare.
A chi esita, a chi ci chiede se in queste condizioni difficili valga la pena ancora impegnarsi, non possiamo che ripetere: «Questo tu chiedi. Non aspettarti nessuna risposta oltre la tua».