Il manifesto, 11 marzo 2015
di Massimo Villone, 10.3.2015
Un brutto giorno per la Repubblica. Come era nelle previsioni, la Camera approva la riforma costituzionale Boschi-Renzi, già votata in Senato. 357 sì, 125 no, 7 astenuti, che alla Camera non contano. Movimento 5 Stelle fuori dall’Aula. Numeri certo favorevoli a Renzi. Ma è facile vedere, richiamando il consenso ai soggetti politici realmente espresso nel voto del 2013, che una Camera depurata dalla droga del premio di maggioranza dichiarato illegittimo con la sentenza 1/2014 della Corte costituzionale oggi avrebbe bocciato la proposta. Non è la Costituzione della Repubblica. È la costituzione del Pd con escrescenze. Una costituzione di minoranza.
Questo conferma tutte le critiche sulla mancanza di legittimazione a riformare la Costituzione di un parlamento fulminato nel suo fondamento elettorale. E dunque non abbiamo affatto un paese più semplice e giusto, come esulta Matteo Renzi. Invece, abbiamo in prospettiva una Costituzione che non riflette la realtà del paese.
Il voto della Camera ci consegna quel che sarà, molto probabilmente, il testo definitivo della riforma. Si richiede un nuovo passaggio in Senato per chiudere con l’approvazione di un identico testo la fase della prima deliberazione richiesta dall’art. 138 della Costituzione. Ma è ragionevole prevedere che Renzi alzerà barricate contro ogni ulteriore modifica, che potrebbe del resto toccare solo le parti ora emendate dalla Camera.
Immutata la sostanza. Lievemente migliorata la “ghigliottina” per cui il governo poteva pretendere a data certa il voto su un testo di sua scelta. Un vero e proprio potere di vita o di morte sui lavori parlamentari. Ora rimane solo la data certa, e non è poco. Fino ad oggi sarebbe stata materia riservata all’autonomia delle Camere attraverso i regolamenti parlamentari. Da domani — scritta in Costituzione — sarà invece un vincolo sul parlamento nei confronti del governo. Peggiorata la riforma del Titolo V, dove viene annacquato con inedite complicazioni il proposito — in sé apprezzabile — di una semplificazione del rapporto Stato-Regioni.
Ma su tutto prevale la inaccettabile scelta — che rimane — di un Senato non elettivo, di seconda mano e di doppio lavoro, tuttavia investito di poteri rilevanti, tra cui spicca quello di revisione della Costituzione. Mantengono piena validità le critiche più volte espresse su queste pagine. Soprattutto per la sinergia con l’Italicum, che va colta in tutto il suo significato. E se ne accentua il rilievo nel momento in cui la riforma costituzionale rimane pessima, e l’Italicum peggiora. Al già inaccettabile impianto di base, inosservante dei principi posti con la sentenza 1/2014, si aggiungono ora il premio alla sola lista, la beffa dei capilista bloccati e candidabili in più collegi, il ballottaggio. Il colpo alla rappresentatività delle istituzioni e ai processi democratici si aggrava.
La fine dichiarata da Berlusconi del patto del Nazareno aveva suscitato qualche speranza. La lettera dei “verdiniani” — Verdini è notoriamente in odore di renzismo — fa nascere dubbi sul controllo di Berlusconi sul partito. Forse una parte dei suoi si appresta a cambiare padrone, se non casacca. Nel prossimo voto in Senato — ancora in prima deliberazione — non sarà prescritta una particolare maggioranza. Ma sarà una prova generale per la seconda deliberazione ex art. 138, per cui si richiede il voto favorevole della metà più uno dei componenti l’assemblea. In Senato il dissenso potrebbe allora essere decisivo. E affossare la riforma trascinerebbe con sé anche l’Italicum, che nulla prevede per il Senato assumendone il carattere non elettivo.
Sapremo dunque già nel voto che si avvicina se la sinistra del Pd ha numeri e attributi. Sapremo se il patto del Nazareno è davvero morto. Berlusconi ha inteso fare a Renzi lo stesso sgambetto che fece a D’Alema nel 1997, quando affossò in Aula la proposta che Fi aveva votato in Commissione bicamerale Allora, pur avendo i numeri, la maggioranza di centrosinistra si fermò. Questa volta non gli è riuscito. In Senato provaci ancora, Silvio. Magari faremo il tifo per te.
Nel frattempo, bisognerà spiegare al popolo sovrano che nelle istituzioni si forgiano le politiche di governo. Per le donne e gli uomini di questo paese le scelte istituzionali non sono indifferenti. Istituzioni semplificate e poco rappresentative, assemblee elettive con la mordacchia, governi che funzionano come giunte comunali (formula renziana), partiti della nazione producono politiche conservatrici, disattente verso i diritti, subalterne ai poteri forti, sorde alle diversità, e invece tolleranti verso le diseguaglianze. Già accade.
Con pensosa pacatezza Bersani finalmente avverte che l’Italicum non è votabile per la sinergia perversa con la riforma costituzionale. Corra ai ripari. Qualcuno dovrebbe spiegare a lui e all’evanescente sinistra Pd che la ditta li ha già messi in cassa integrazione a zero ore. Anche il nuovo partito non più leggerissimo di cui Renzi favoleggia li metterebbe in mobilità. Per loro, solo contratti a tutele decrescenti.
Ai governativi mancano una quarantina di voti; 21 sono del Pd dove in tre si astengono (Capodicasa, Galli e Vaccaro), 7 sono assenti giustificati e 11 non partecipano perché in dissenso. Una minoranza, questi ultimi, della minoranza; il dissenso era stato più forte al senato nel primo passaggio sette mesi fa. La gran parte dei bersaniani vota sì: riconoscono nella riforma un pericoloso «cambiamento profondo della forma di democrazia parlamentare» (Bindi) eppure valutano che «non si può far fallire il percorso» (Cuperlo). Dicono un altro sì, ma assicurano che «è l’ultima volta» se «non si riaprirà il confronto» se «non ci sarà equilibrio» con la legge elettorale. Cioè l’Italicum che Renzi ha detto e ripetuto di non voler cambiare.
Due spicchi dell’emiciclo restano vuoti anche al momento del voto, sono quelli del Movimento 5 Stelle che non rinuncia all’Aventino. Appare solo il delegato Toninelli e la sua dichiarazione di voto comincia con «fascisti» e finisce con «disonesti». Ma in mezzo ha una citazione importante: le parole di fuoco contro la riforma costituzionale imposta dal governo Berlusconi, discorso del 2005 di Sergio Mattarella.
È difficile, dal momento che ci sono le elezioni regionali dietro l’angolo: saranno giorni di contrapposizioni accese e di pause nei lavori parlamentari. Ma non impossibile, visto che al senato spetta adesso un compito assai limitato. Solo gli articoli che la camera ha modificato rispetto al testo votato dai senatori potranno essere rimessi in discussione. E solo gli emendamenti strettamente legati alle novità potranno essere ammessi.
Renzisembra irremovibile: il merito della riforma per lui non il punto, il punto è la sua determinazione a non riportare l’Italicum al senato, camera infida da quando Forza Italia nega i voti. Dunque la legge non si tocca «neanche di una virgola». Così l’ex area Cuperlo, che prepara la «reunion» per il 21 a Roma (il 14 a Bologna però Speranza riunisce l’ala ’dialogante’) vede delinearsi all’orizzonte la scommessa finale: o un ’serrate i ranghi’ o il definitivo ’si salvi chi può’.
Le cinquanta sfumature della minoranza Pd praticano tre voti diversi. In tre si astengono (Capodicasa, Galli e Vaccaro), in sette non partecipano al voto (fra gli altri Fassina, Boccia, Civati, Pastorino), gli altri votano sì turandosi il naso. La dichiarazione a nome del gruppo è affidata a Lorenzo Guerini, non a Speranza, presidente dei deputati. Per Alfredo D’Attorre questo sì è «l’ultimo atto di responsabilità». In aula prima di lui Rosy Bindi parla di «ultimo voto favorevole» perché senza modifiche «nelle votazioni precedenti», vuole dire ’successive ma è un lapsus rivelatore, «non parteciperò al voto e nel referendum starò dalla parte dei cittadini». Il referendum confermativo è uno degli spettri: «Che faremo, una campagna contro le riforme di Renzi?», è il rovello di molti. Gianni Cuperlo annuncia il sì ma avverte che «senza modifiche ciascuno si assumerà le sue responsabilità». Più tardi la sua area Sinistradem ribasce l’ultimatum in un documento firmato da 24 parlamentari (fra gli altri Amici, Argentin, Bray, De Maria, Fontanelli, Miotto, Pollastrini).
Stefano Fassina non partecipa al voto e dichiara, rivolto più ai suoi che all’aula: «Abbiamo appreso dal presidente del Consiglio l’indisponibilità a correggere la legge elettorale». Come dire: è inutile promettere battaglia se poi alla fine vi allineate sempre. Pippo Civati lo dice esplicitamente: «Dopo il voto di stamani quasi l’intero testo della riforma risulta inattaccabile. Chi ha votato a favore condivide le scelte compiute e ne porta la responsabilità». Dal senato Chiti prende atto che «nella cosiddetta minoranza Pd ci sono differenze politiche profonde».