Nel suo libro “Ambiente e pace una sola rivoluzione”, pubblicato nel 2008, Carla Ravaioli partiva da due considerazioni di fondo - che la crisi ecologica è connessa al sistema capitalistico e che la guerra è inseparabile dall’obbligo di crescita produttiva - per sostenere la necessità della smilitarizzazione unilaterale dell’Unione Europea.
Una proposta “shocking”, come lei stessa l’ha definita, ma giustificata dall’eccezionale portata e conseguenze del “guasto ecologico”, e del fallimento degli strumenti messi in atto per affrontarlo, in quanto derivano dalla stessa logica di mercato –massima crescita produttiva per il massimo profitto - che li hanno creati.
Già evidenziava come il mercato “si rianima per rilanciare a gran voce energie alternative, lampade a basso consumo, auto ecologiche, prodotti di ogni tipo che ‘fanno bene anche al pianeta’. […] Mercati impegnati nella guerra per l’accaparramento di risorse sempre più scarse e costose.”
Riteneva che ridurre la produzione di merci fosse indispensabile, perché nessuna tecnologia sarebbe stata sufficiente a salvaguardare la nostra specie su questo pianeta, a partire proprio dalla produzione bellica. La scelta del disarmo si fonda ovviamente anche sulla radicalità della non violenza, come base fondamentale dei rapporti umani e sociali.
Un libro che parla di economia, di crisi ecologica, di guerra, della sua presenza costante, connaturata al nostro mondo e al nostro tempo; di diseguaglianze anche ambientali “perché lo squilibrio ecologico, nelle sue innumerevoli forme, in tutto il mondo, colpisce soprattutto i più poveri”. Sono loro che non riescono a sfuggire a alluvioni, uragani; sono gli operai che più di altri sono esposti a processi tossici; sono gli abitanti meno abbienti che vivono nelle zone più degradate e inquinate; sono i poverissimi a non avere accesso all’acqua potabile e sono in fuga da ecosistemi distrutti.
C'è una ragione per cui il tema ambiente dovrebbe (avrebbe dovuto da sempre) essere assunto dalle sinistre come un loro tema, nel rispetto di quelli che sono stati gli obiettivi specifici e la funzione storica della loro parte. Perché (cosa che raramente si ricorda) lo squilibrio ecologico, nelle sue innumerevoli forme, in tutto il mondo, colpisce soprattutto i più poveri. Sono quasi sempre i più poveri che non riescono a scampare da uragani e alluvioni, e che a questo modo negli ultimi decenni hanno perso la vita a centinaia di migliaia [e altre migliaia dobbiamo aggiungerne dal 2008, quando Ravaioli scriveva, ad oggi, NdR]. Sono gli operai a trattare processi industriali altamente tossici e spesso cancerogeni, e per lo più sono loro e le loro famiglie a vivere nei pressi di fabbriche fortemente inquinanti [costretti a scegliere tra lavoro e salute, NdR]. Sono gli agricoltori, specie nel Sud del mondo, a manipolare quantitativi massicci di pesticidi e a morirne. Sono i poverissimi (quasi un miliardo e mezzo) [dato da aggiornare, 9 anni dopo, NdR] a non avere acqua potabile. Sono di poveri le enormi masse oggi in fuga dalla rottura degli ecosistemi: contadini disoccupati dall’industrializzazione dell’agricoltura, interi popoli sospinti dai deserti che avanzano, dalla perdita di pescosità di fiumi e laghi variamente contaminati […] dall’abbandono obbligato di valli destinate alla costruzione di dighe gigantesche: a fine 2006 si calcolavano sui 45 milioni i profughi ambientali, ma le previsioni già parlavano di 50 milioni nel 2030 e di 200 milioni entro la metà del secolo. (pp. 121-122).
La crisi ecologica non può non comportare anche crisi economica. E ciò già sta accadendo. Oggi il capitalismo si trova a fare i conti con l'esaurimento delle risorse (petrolio e acqua in primis) che sono base e condizione del suo stesso operare e prosperare; al medesimo tempo si trova di fronte alla (quasi totale) mancanza di nuovi spazi da occupare per ulteriore estrazione di plusvalore: due fondamentali motivi che lo pongono nell'impossibilità di proseguire nelle politiche espansive proprie della sua natura e storia. le risposte a questa duplice difficoltà finora poste in essere non possono in alcun modo risultare utili e ancora meno risolutive; sempre più affannata rincorsa di produzione e consumi, promozione indiscriminata di opere ad alto impatto ambientale, ogni forma di "normale" competizione spinta al massimo in un estremo inasprimento del mercato, non sono che accanimento nelle stesse politiche che hanno causato il danno; mentre la guerra, si prevede, s'imporrà da un lato come unico percorso utile ad assicurare alle grandi potenze quanto resta di risorse esauribili e di territori sfruttabili, dall'altro come ultimo strumento capace di rimettere in moto l'economia in generale recessione.
Inoltre l'attuale doppia crisi ecologica-economica non potrà non coinvolgere in una prospettiva di crescente durezza i rapporti sociali. Non solo perché - conviene ribadirlo - sono i lavoratori e in genere i poveri sempre e dovunque a pagare le peggiori conseguenze dell'ambiente sconvolto; ma perché su di loro soprattutto l'economia-mondo scarica le sue attuali difficoltà, sempre più esosamente accentuandone lo sfruttamento, addirittura tollerando (o promuovendo?) il riapparire di forme di schiavitù; imponendo la durezza di nuove politiche, dettate dalle dinamiche dei mercati internazionali impegnati in una forsennata competitività, che spietatamente governa l'economia del mondo e il lavoro di essa. Lo scandalo di diseguaglianze sempre più accentuate e lo spettacolo oltraggioso di migrazioni ogni giorno più numerose sono solo l'antefatto - dicono gli esperti - di quanto il prossimo futuro vedrà prodursi su dimensioni gigante.
La crisi ecologica, in quanto conseguenza dell'attuale modello economico, mette a nudo insomma senza più possibili equivoci o illusioni la natura del capitalismo: cieca macchina autoreferenziale, impegnata in un inarrestabile produrre fine a se stesso, che inevitabilmente si traduce in una sistematica predazione e devastazione della natura.
La crisi ecologica potrebbe pertanto essere occasione di rivedere, alla sua luce, la tradizionale lettura del conflitto sociale: allargandone orizzonti e implicazioni, correggendone rigidità non più attuali, confrontando la cultura che tradizionalmente l'ha animata con la nuova consapevolezza di un mondo irreparabilmente "finito, forse persino recuperando quel "senso del limite" che gli umani nel loro divenire hanno perduto. In questo processo aprendo anche la possibilità di ridiscutere alcuni stereotipi consolidati nella vulgata marxista, impropriamente desunti dalla stessa base teorica del materialismo storico, il quale affidando allo "sviluppo delle forze produttive" il rovesciamento dei rapporti di produzione, pareva autorizzare la necessità di un illimitato sfruttamento della natura. (pp.128-129)
Come introduzione al libro segnaliamo L’IMBROGLIO DELLA CRESCITA, una recensione di Lodo Meneghetti.
Sulla necessità di intraprendere un nuovo percorso, cambiare paradigma a partire dal rifiuto della guerra come logica e pratica segnaliamo un’articolo di Carla Ravaioli: NO ALLA GUERRA, PER COMINCIARE A RIPENSARE IL MONDO.