«Stato di crisi» di Carlo Bordoni e Zygmunt Bauman, per Einaudi. L’impoverimento e le disuguaglianze sociali hanno evidenziato l’implosione di un modello economico. L'Ue è il laboratorio dove sperimentare, in più occasioni, le varie politiche legate all’austerity».
Il manifesto, 31 marzo 2015
Un dialogo dove uno dei partecipanti incalza l’altro, il quale si sottrae e spinge la discussione su altri binari. E quando la parola torna al primo, quest’ultimo non può che riprendere il bandolo della matassa e cercare di ritessere le fila di una discussione che corre il rischio annullarsi in una serie di monologhi. La forma del dialogo per affrontare un tema è antica, la si trova nella filosofia greca, ma anche in testi sacri, compreso il vecchio testamento. La sua efficacia dipende dal tema prescelto e dalla volontà dei protagonisti del dialogo di misurarsi con punti di vista che non sempre coincidono. Nel caso di Stato di crisi (Einaudi, pp. 198, euro 18) è però evidente che Zygmunt Bauman e Carlo Bordoni sono più che disponibili a misurarsi con le tesi che vengono espresse.
Carlo Bordoni è un sociologo che studia da tempo la «demassificazione» delle società contemporanee. Ha delineato la deriva culturale verso un individualismo proprietario, sottolineando i tratti di nichilismo, narcisismo che emergono quando una moltitudine – una sommatoria generica di singoli di singoli, per Bordoni — prende il posto delle classi sociali. Zygmunt Bauman è invece il teorico della modernità liquida.
In questo libro svolge il ruolo del saggio studioso che, alla luce della sua esperienza, è poco incline a fare proprie suggestioni teoriche che il sistema dei media porta alla ribalta. Misura le parole, quasi volesse suggerire al suo interlocutore che la crisi, il tema attorno al quale ruota il loro dialogo, costringa a misurarsi proprio con la modernità, i suoi punti di forza, ma anche i vicoli ciechi che l’hanno caratterizzata. Segnala, infatti, che in nome delle promesse degli esordi — libertà, benessere per tutti — sono state erette prigioni e costruiti campi di lavoro. E che per rendere operativa almeno una di quelle promesse, il benessere della nazione, sono stati individuati dei nemici e pianificato il loro sterminio. Per questo invita più volte a dotarsi di bussole che orientino con chiarezza la marcia da intraprendere nell’interregno che separa il presente e un futuro che in molti vedono negato dalle politiche del neoliberalismo e che altri temono come la peste, perché convinti che non potrà che peggiorare le loro condizioni di vita. A tale richiesta di cautela programmatica Bordoni aderisce, ma più volte mette nero su bianco che — rispetto le sfide poste dalla situazione di crisi economica — vanno immaginate anche risposte politiche.
Legittimità perduta
Il titolo del libro in questione chiarisce tuttavia quale sia il timore di Carlo Bordoni. Lo Stato di crisi attorno al quale discutono i due studiosi non si riferisce solo alla crisi che dal 2007 in poi ha gettato nel panico e nel lastrico milioni di persone. L’impoverimento, la disoccupazione di massa, l’aumento esponenziale delle disuguaglianze sociali hanno reso evidente l’implosione di un modello economico e sociale che era stato imposto perché il precedente mostrava evidenti segni di logoramento; per questo si è imposta la convinzione che ha avuto la capacità di costruire un forte e niente affatto effimero consenso, di rimuovere, con le buone ma anche con le cattive, i vincoli posti dal cosiddetto regime di accumulazione capitalistica fordista.
Sono ormai passati trent’anni da quando alcuni leader politici (Margaret Thatcher e Ronald Reagan) e un nutrito gruppo di economisti invitavano con voce suadente a lasciare liberi gli spiriti animali del mercato perché — così facendo — tutto sarebbe andato per il meglio. Le cose non sono andate per niente bene, ma l’idea che il libero mercato fosse il miglior modo di pensare e di far funzionare l’economia è stata egemone.
Non è sempre convincente la generalizzazione che i due autori fanno, specialmente quando mettono in secondo piano il fatto che il neoliberismo ha modificato a favore delle imprese, e del capitale, i rapporti di forza. Le posizioni di Bauman e Bordoni colgono però il segno quando sottolineano che, con la crisi, il neoliberismo, ha perso consenso e legittimità, anche se non si capisce con chiarezza quale sia il modo di produrre che possa far ripartire la locomotiva dell’economia mondiale.
Il neoliberismo, infatti, ha costituito una discontinuità rispetto al passato. Difficile riproporre un ritorno al welfare state su base nazionale, viste le interdipendenze che caratterizzano l’economia mondiale. Un modo per sbrogliare la matassa potrebbe partire però dall’analisi di come ha colpito la crisi. Sono cresciute le disuguaglianze nel capitalismo europeo e statunitense; i diritti di cittadinanza sono diventati merci da acquistare sul mercato dei servizi sociali; la precarietà è diventata l’alfa e l’omega nei rapporti di lavoro.
Cose note, meno evidente è invece il fatto che sono state definite vie d’uscita dalla crisi del neoliberismo all’interno dello stessa regime di accumulazione. L’Unione europea è, da questo punto di vista, un laboratorio sociale e politico di uscita dalla crisi attraverso le politiche di austerity.
Ad altre latitudini, sono operative soluzioni che, sempre in nome del libero mercato, vedono lo stato svolgere, attraverso un governo gestito con mano ferma di un partito comunista, una duttile e comunque evidente funzione pianificatrice. Non è tuttavia questo che i due autori vogliono indagare.
Un futuro da ricreare
Il libro oscilla dalla volontà di offrire una fotografia non sfocata della realtà contemporanea e l’ambizione di costruire una vera e propria capacità interpretativa dello stato di crisi, appunto, che nelle pagine di questo libro ha molto a che fare con la crisi della modernità.
E se Bauman preferisce, come è noto, parlare di modernità liquida, Bordoni avanza il sospetto che più di fine della modernità si debba parlare di una sorta di venir meno di un intera costellazione culturale, politica e economica basata sul l’idea di progresso, dove il futuro non poteva essere che migliore del passato.
Elemento centrale della sua riflessione è appunto la «demassificazione» delle società contemporanee: prospettiva analitica che il sociologo polacco inquadra però come un elemento proprio della modernità, che al sempre messo al centro il singolo, che poteva certo attendere per conseguire i suoi obiettivi, ma era consapevole che tutti gli sforzi erano finalizzati alla sua felicità.
La parola chiave, magica del libro è dunque interregno, cioè di una transizione da un modo di produzione all’altro. Quel che però è assente dal libro che la crisi, cioè lo stare proprio in un interregno, è una condizione non congiunturale, ma stabile del capitalismo contemporaneo. In altri termini, l’interregno sarà la realtà «stabile» della vita associata. E che in questo interregno si definiranno politiche sociali e economiche per gestire una realtà che ha sì messo in quarantena l’idea di progresso, ma senza rinunciare a definire le regole bronzee del capitalismo nella produzione della ricchezza.
C’è sempre un però da mettere in campo: che la crisi, così come vivere nell’interregno, diventi una possibilità per affermare quel rendere realtà un binomio che ha accompagnato la modernità: cioè quella possibilità di vivere insieme, ma da liberi e eguali.