Più passano i giorni dalla doppia strage di Bruxelles, più appare chiaro come la principale vittima di quell’atrocità, oltre alle donne e agli uomini le cui vite sono state cancellate come fossero cose, sono loro: la moltitudine di migranti spalmati sui confini d’Europa o appena filtrati al suo interno, che ne avranno – ne hanno già! – la vita sconvolta. E con loro i 20 milioni di musulmani che abitano le città d’Europa, a cui con voci sempre più sguaiate si chiede di negare status di cittadini eguali (il che la dice lunga sul cinismo con cui questo jihadismo senza princìpi gioca con le vite di coloro nel nome del cui dio dice di combattere).
Dovrebbero essere loro, migranti vecchi e nuovi, i nostri migliori alleati, in questa che si vuol chiamare guerra, se solo un barlume d’intelligenza (foss’anche d’intelligenza strategica) c’illuminasse. Quelli più interessati, in nome della tutela del proprio «stile di vita», a disseccare questa radice velenosa dell’odio da cui hanno tutto da perdere.
Se è vero che la «guerra» in corso è, soprattutto e in primo luogo, una guerra di «narrative» (una proiezione dello storytelling sul terreno devastante del conflitto estremo), in cui il raggruppamento lungo il discrimine amico/nemico avviene in rapporto alla forza d’attrazione di un «racconto».
E se il «racconto» del nostro nemico si alimenta della retorica dell’Occidente crociato, nemico mortale dell’islam, in guerra preventiva con i seguaci dell’unico e vero dio – retorica tanto più ferocemente aggressiva quanto più intensamente vittimistica -, allora ogni parola di guerra pronunciata dal nostro campo, tanto più se non sostenuta da azioni conseguenti ed efficaci (e come potrebbero esserlo oggi?), è manna dal cielo per quell’identità ostile. Ne fornisce la materia prima di cui strutturarsi e consolidarsi.
Non per nulla Daesh usa, per la propria propaganda, i filmati con i comizi di Donald Trump. Ma lo stesso potrebbe fare con quelli di Matteo Salvini. E di Marine LePen. O dei variopinti demagoghi populisti sparsi per l’Europa minore, non diversi peraltro dalla retorica degli «stivali sul terreno» rispolverata da un riesumato Tony Blair e dalle guasconate di un Hollande in stile guerriero nonostante se stesso.
Sono loro oggi i migliori reclutatori di Daesh su scala globale, dobbiamo dirlo con chiarezza.
Sono loro i ghost writer della narrativa jihadista, offrendo giorno per giorno – nell’intreccio tra bellicosità verbale e impotenza reale – i materiali linguistici per la trama di una storia infinita e sempre uguale, che batte sempre sullo stesso tasto: la distruzione dell’Altro. E che prima o poi quel vaso di Pandora che ha riempito di veleni lo aprirà del tutto, perché sono i seminatori di tempesta quelli che oggi, sciaguratamente, dettano i termini del dibattito pubblico (basta leggere i post in ogni angolo della rete) come se un meccanismo perverso se ne fosse impadronito che finisce per premiare specularmente le retoriche distruttive e irrazionali contro ogni lume della ragione. In una sorta di «vertigine».
Torna in mente un vecchio saggio di Roger Caillois, scritto alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, intitolato appunto Vertiges, dove s’intendeva con quel termine l’irresistibile attrazione per cui «l’essere è trascinato alla rovina e come persuaso dalla visione stessa del proprio annientamento» che «lo priva del potere di dire di no». È lo stesso istinto autodistruttivo per cui l’insetto è attratto dalla fiamma che lo ridurrà in cenere, l’uccello dallo sguardo del serpente che lo divorerà. E l’uomo dalla fascinazione del vuoto… La forza cieca della sorte per il giocatore coattivo. L’inaccessibile impassibilità della femme fatale per l’innamorato senza speranza, nel campo dei comportamenti individuali. Per le società, invece, la Guerra.
Il punto zero dell’esistenza in cui ciò che si considera inevitabile trova infine compimento nel trionfo del nulla. In ogni caso il denominatore comune della vertigine è innanzitutto la distruzione dell’autonomia: una «fatale paralisi» di fronte alla sollecitazione dell’abisso. E l’antidoto – risorsa rara – è una volontà capace di restare «padrona di sé», conservando «l’indipendenza, l’energia e l’iniziativa». Cioè quello che dovrebbe essere la Politica (il condizionale è d’obbligo), quando fosse capace di rimanere fedele al proprio profilo più nobile: la vocazione a perseguire il «bene comune», per arduo che ciò sia.
Per questo noi de l’Altra Europa con Tsipras abbiamo messo al centro della nostra recente assemblea nazionale a Milano la riflessione su cosa voglia dire «fare politica in tempi difficili». Che non sono i tempi in cui l’avversario contro cui lottiamo è infinitamente più forte di noi, a questo siamo in fondo abituati da sempre. Ma quelli in cui il quadro politico e sociale – persino culturale, e potremmo dire ‘antropologico’ – in cui ci muoviamo si decompone e si sfarina. Quando i fronti lungo i quali si definiscono gli amici e i nemici mutano rapidamente, si spezzano e ricompongono, e la nostra stessa comunità rischia di decomporsi e sfarinarsi, i rapporti di fiducia di logorarsi e spezzarsi, e si stenta a vedere gli alleati e i compagni di strada. Quando si finisce per non riconoscersi più… l’un l’altro!
Sono i tempi in cui si passa da una situazione che Gramsci avrebbe chiamato di «guerra di posizione» – in cui si confrontano blocchi ancora strutturati (neoliberismo contro resistenza sociale), forme organizzate (Stati, Partiti) ancora relativamente stabili in lotta per l’egemonia – a una di «guerra manovrata» o «di movimento» in cui, appunto, le egemonie si sfaldano e tutto diventa a geometria variabile. Allora le consolidate strategie e le vecchie tattiche non solo non servono più ma diventano dannose. E conta la velocità di pensiero.
In una situazione simile, ancora all’inizio degli anni ’40, ancora Caillois, pensando alla nascente resistenza, scrisse un breve testo intitolato Athènes devant Philippe in cui, di fronte al ritorno dell’odio tra i popoli, ricordava come, un tempo, Atene avesse saputo, nella lotta contro il pericolo macedone, «rompere solennemente con quella tradizione che metteva le nazioni le une contro le altre» perché nessuno potesse accusarla di preferire «gli interessi di Atene al diritto altrui» («Nella lotta contro Filippo avrebbe avuto le mani pulite»). E avesse così proposto «ai forti, agli audaci, agli austeri di unirsi su tutta la terra per instaurare il loro governo sulla moltitudine dei soddisfatti e dei mediocri».
Ad Atene, il 18 e 19 marzo, si è riunita la nascente nuova sinistra europea. Sul palco principale, alla conclusione, c’erano tutti i principali protagonisti di quella rinascita. Un solo vuoto: l’Italia. Perché qui ancora una sinistra alternativa non c’è. E il peso si sente.