Il manifesto, 30 settembre 2016 (p.d.)
Non si trovano acqua, medici e medicine, i gesti della vita quotidiana. I bambini conoscono solo la lotta giornaliera per la sopravvivenza. Con la fastosità di Aleppo è evaporata anche l’infanzia. Rami Adham prova da qualche anno a metterci una pezza: siriano finlandese, è noto come il «contrabbandiere di giocattoli»: palloni da calcio, barbie, peluche, 70 kg di giochi alla volta che nelle sue 28 visite in Siria ha portato con sé.
Alla Bbc Rami dice di voler «preservare gli eroi che rappresentano il futuro della Siria». C’è da chiedersi quale sia il futuro per un paese di cui metà della popolazione, 11 milioni di persone, è rifugiata all’estero o sfollata all’interno, che piange quasi mezzo milione di morti e legami sociali in frantumi. Aleppo ne è l’esempio, divisa a metà tra governo e opposizioni.
L’ultima settimana ha visto una terribile escalation: Damasco avanza via terra, decisa a «spazzar via i terroristi»; le opposizioni non arretrano per non lasciare spazio al compromesso politico. I numeri delle Ong sono terrificanti: 100 bambini uccisi e 223 feriti secondo l’Unicef da venerdì, quasi 500 civili morti da lunedì 19 settembre, solo 35 medici presenti nei quartieri est. Altri due ospedali sono stati colpiti ieri da missili, centrate anche due panetterie, tra le poche ancora aperte e con lo scarso cibo a disposizione che ha raggiunto prezzi stellari.
Di certezze ce ne sono poche ad Aleppo. Una di queste è che il conflitto non finirà a breve: secondo fonti delle opposizioni e ufficiali Usa, Washington avrebbe autorizzato le petromonarchie del Golfo a rifornire i “ribelli” di missili anti-aereo Manpad, preoccupando molti osservatori: l’equipaggiamento, come quello inviato prima, finirà nelle mani delle opposizioni militarmente più efficaci, l’ex al-Nusra e la galassia salafita che la sostiene pur sedendosi al tavolo di Ginevra e che da agosto ha ammassato ad Aleppo migliaia di miliziani per la cosiddetta battaglia finale.
Eppure sulla città si aggira ancora il fantasma della tregua che genera solo false speranze. Ieri Casa Bianca e Cremlino hanno riproposto, ognuno a modo suo, la stantia promessa del dialogo mescolata a intimidazioni reciproche. Il segretario di Stato Usa Kerry ha minacciato di chiudere se Mosca non interrompe subito i raid, ma fonti dell’amministrazione parlano già di reazioni militari suggerite ad un recalcitante Obama.
La Russia risponde: le dichiarazioni Usa sulla Siria – ha detto il vice ministro degli Esteri Ryabkov – sostengono il terrorismo. Ha poi rigettato la proposta di 7 giorni di tregua, «inaccettabile» perché volto a far riorganizzare le opposizioni e rilanciato: 48 ore per far arrivare degli aiuti, quelli che durante il cessate il fuoco dal 12 al 18 settembre non sono stati consegnati.
Il gap tra Washington e Mosca, impegnate in un braccio di ferro che travalica le frontiere siriane, si amplia irrigidendo le posizioni dei due fronti: quello pro-Assad, guidato dalla Russia e sostenuto da Iran e Hezbollah; e quello del composito fronte di opposizione, gestito dal Golfo e ufficialmente solo in parte dagli Stati Uniti.
Qui sta la base fragile della strategia Usa: mentre Putin è sponsor di un solo soggetto, Assad, figura che incarna gli interessi russi, Obama deve giostrarsi tra innumerevoli attori. Se dietro le quinte gli Usa riforniscono di armi i “ribelli”, consapevoli che una buona parte finisce ai qaedisti, in pubblico è impossibile sostenere apertamente questa porzione delle opposizioni. Eppure sanno che si tratta della più radicata e meglio armata, la sola che può dare filo da torcere all’esercito governativo.