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Alberto Negri
La tentazione di spartire la roccaforte di Mosul
3 Novembre 2016
2015-La guerra diffusa
Un'analisi delle forze e i poterri in gioco in M.O.Gli errori di ieri, che hanno prodotto le guerre di oggi, sono ripetuti dai padroni del mondo, preparando così le guerre di domani. È il capitalismo, baby. I

Un'analisi delle forze e i poterri in gioco in M.O.Gli errori di ieri, che hanno prodotto le guerre di oggi, sono ripetuti dai padroni del mondo, preparando così le guerre di domani. È il capitalismo, baby. I

l Sole 24Ore, 3 novembre 2016

Chi riempirà il vuoto lasciato dal Califfato? La parola spartizione, sia pure declinata in maniera assai diversa e contrastante tra sunniti, sciiti filo-iraniani, curdi e turchi, aleggia nella polvere della battaglia di Mosul. Le forze dell'esercito iracheno si stanno impossessando di quartieri orientali ma sono ancora fluidi i confini tra le aree di influenza delle milizie sciite, di quelle curde e dell'esercito di Ankara. Tutti comunque vogliono piantare la loro bandiera, qui come in Siria, definendo se possibile frontiere reali, e anche un po' immaginarie in aree con centinaia di migliaia di profughi, che invece della pace potrebbero essere i presupposti per nuove guerre.

Un giorno lo Stato Islamico potrebbe dissolversi ma non le ragioni presenti e le cause profonde che hanno reso possibile la sua nascita. Il video di maggiore successo dell'Isis in tutto il Medio Oriente fu quello in cui un bulldozer abbatteva un cartello ai confini tra Siria e Iraq con la scritta “Fine di Sykes-Picot”, l'intesa anglo-francese firmata il 16 maggio 1916 per spartire l'impero ottomano. Fu quella una dura lezione della storia nata dall'imperialismo occidentale.

La tentazione, e forse la necessità, di disegnare cento anni dopo nuove frontiere è ancora fortissima e non è difficile capirne i motivi: almeno quattro stati della regione – Siria, Iraq, Yemen e Libia – sono in fase di disgregazione con eventi così devastanti ed epocali che sembrano costituire un vendetta postuma contro quell'accordo tra un diplomatico britannico, orientalista di lungo corso, e un francese.

Il Califfato è apparso in questi anni come una sorta di mostro provvidenziale per cambiare le frontiere del Medio Oriente. Un po' come lo fu Al Qaida dopo l'11 settembre per intervenire prima in Afghanistan nel 2001 e poi in Iraq nel 2003, quando fu scoperchiato il vaso di Pandora della Mesopotamia e gli Stati Uniti pensavano di essere loro a rifare da soli la carta della regione. Più di recente un articolo e una mappa pubblicati dal New York Times il 29 settembre 2013 – il Califfato era già entrato in azione – prendevano in considerazione la possibilità che i confini e le rivolte in corso in Medio Oriente potessero provocare la frammentazione di alcuni Stati arabi in entità più piccole.

L'articolo di Robin Wright, ex corrispondente da Beirut, scatenò allora accesi dibattiti negli Stati Uniti mentre in Medio Oriente esplodevano le congetture su un nuovo piano dell'Occidente, di Israele e di altri soggetti malintenzionati per dividere gli stati arabi in entità più piccole e più deboli. A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca diceva qualcuno. E qualche tempo fa la parola spartizione è stata pronunciata anche dal segretario di Stato americano John Kerry: «Se non si riuscirà a tenere unita la Siria, bisognerà ricorrere a un Piano B», ha affermato in un'audizione al Senato.

Ma intanto nel settembre 2015 in Siria è scesa in campo direttamente la Russia che ha cambiato di nuovo le carte sulla mappa mediorientale. Dopo lo scontro con la Turchia, quello stesso Putin che ieri ha dichiarato una tregua umanitaria ad Aleppo, si è messo d'accordo con Erdogan per lasciargli via libera nella repressione di curdi siriani del Rojava, alleati degli Usa contro l'Isis, e approva probabilmente anche la penetrazione militare di Ankara in Iraq e intorno a Mosul: in cambio i russi potrebbero riportare la vittoria di Aleppo a spese dei ribelli e consolidare la loro presenza strategica sulla costa siriana. L'ex ambasciatore americano James Dobbins è stato esplicito: «Bisogna lavorare con Mosca a una soluzione per la Siria sul modello della Germania nel 1945». Ma riprodurre lo schema rigido della Guerra Fredda in Medio Oriente appare oggi assai complicato: la balcanizzazione sembra l'ipotesi più probabile perché del resto è già in atto.

La storia dell'Iraq e della Siria appartiene a un intreccio complesso tra strategie coloniali britanniche e francesi, contesti geopolitici legati al petrolio e ai movimenti nazionalisti che hanno contribuito a disegnare la mappa del Medio Oriente conosciuto fino a oggi. Già allora comparvero sulla scena movimenti fondamentalisti islamici e rivolte di massa di cui l'ultima con effetti dirompenti si è avuta nel 2011.Ci fu un tempo in cui l'idea del Califfato diventò una soluzione politica anche per l'Occidente. Ricordarlo oggi di fronte alle atrocità dell'Isis può apparire una bestemmia. Ma fu esattamente quanto fece il ministro delle Colonie Winston Churchill: con l'espediente politico dei califfati e degli sceicchi mise a capo degli Stati sotto mandato britannico i monarchi arabi del clan hashemita degli Hussein, sovrani della Mecca. Fu così che nacquero l'Iraq, la Siria e la Giordania.

Emiri e sceicchi allora erano al servizio del piano coloniale per far nascere nuovi stati che adesso si stanno sgretolando. La guerriglia e il terrorismo praticato dallo Stato Islamico di Abu Bakr al Baghdadi sono stati funzionali a un progetto completamente diverso: abbattere le frontiere tracciate un secolo fa e riunire i sunniti sotto la bandiera nera di un nuovo Califfato. È evidente che niente può giustificare i massacri dell'Isis ma bisogna riconoscere il problema: i sunniti sono una maggioranza in una Siria dominata per quarant'anni dal clan degli alauiti di Assad, mentre in Iraq, rispetto agli sciiti, rappresentano una minoranza che con Saddam Hussein è stata fino a un decennio fa al potere nelle forze armate e nell'amministrazione. Sia la Siria che l'Iraq oggi sono degli ex Stati, presenti in maniera virtuale sulla mappa geografica e nessuno né in Occidente né in Medio Oriente ha un piano politico alternativo al mantra dell'unità nazionale ripetuto in maniera stucchevole dalla diplomazia internazionale con la variante del federalismo, che da queste parti è sinonimo di spartizione, non di condivisione.

Una sorta di “fiction” geopolitica per non mutare le frontiere ma la sostanza delle cose.Siamo quindi a un bivio: o si ricostituisce questa unità nazionale, evocata a ogni pleonastica conferenza mediorientale, oppure si deve affrontare la balcanizzazione della regione. Ma niente può sostituire l'unica ricetta possibile per sistemare il grande Medio Oriente: diluire lentamente la ferocia settaria negli interessi economici comuni e fare in modo che la gente torni a vivere insieme, ricostruendo con pazienza un modello di tolleranza che è l'unica via, almeno tra qualche decennio, per garantire una pace duratura.

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