Internazionale articoli per comprendere adici storiche e politiche delle divisioni etniche, nonché una forte povertà da entrambe le parti rendono la crisi birmana molto complessa
Lo scontro tra buddisti e musulmani per la terra e le risorse nello stato del Rakhine non è una novità. Dal quattrocento al settecento in questa regione ci furono ripetuti conlitti tra gli imperi musulmani che si espandevano da ovest e il regno buddista di Mrauk U, nell’Arakan (Rakhine). Questi conflitti terminarono solo nel 1785, quando la regione fu conquistata dal regno di Birmania. Fu però soprattutto il colonialismo britannico (1824-1948) a gettare i semi della crisi attuale. La Birmania faceva parte dell’impero britannico e fu meta di grandi migrazioni dal subcontinente indiano.
I britannici incoraggiarono in particolare i bengalesi a migrare in Birmania per far fronte alla carenza di manodopera o per il lavoro nelle piantagioni. Nel distretto di Akyab (oggi Sittwe), per esempio, dal 1871 al 1911 la popolazione musulmana triplicò, mentre quella rakhine, buddista, aumentò di appena un quinto. Comprensibilmente, quindi, nella memoria culturale dei rakhine c’è la percezione di essere stati “travolti” dagli “immigrati musulmani”.
Più in generale, l’immigrazione verso la Birmania raggiunse il livello massimo nel 1927, con 480mila nuovi arrivi su una popolazione di 13 milioni di persone. a quel tempo gli abitanti di etnia indiana avevano ormai assunto posizioni di rilievo nell’economia del paese, non solo come braccianti nell’agricoltura ma anche come professionisti qualificati, commercianti e finanzieri. Durante la crisi economica degli anni trenta, molti contadini indebitati con gli usurai indiani fallirono e gli indiani diventarono grandi proprietari terrieri.
La risposta a questo rapido afflusso demografico fu una forma di nazionalismo economico con connotazioni razziali che resiste ancora oggi. È un fenomeno non tanto diverso dal nazionalismo xenofobo che ha accompagnato talvolta l’immigrazione di massa per motivi economici neipaesi occidentali. Scoppiarono rivolte contro gli indiani nel 1930 e 1931 e in particolare contro i musulmani nel 1926 e nel 1938. Queste ultime furono guidate dalla maggioranza etnica bamar e non interessarono il Rakhine. Solo nel 1942, dopo che il Regno Unito fu sconitto dalle forze d’invasione giapponesi, nella regione scoppiarono scontri tra le diverse comunità. Le milizie rakhine sfruttarono il conflitto per vendicarsi dei loro nemici musulmani, costringendo decine di migliaia di persone a riparare in India. Come se non bastasse, i britannici armarono le forze volontarie rohingya, ufficialmente per attaccare le forze d’occupazione giapponesi; in realtà, però, spesso i gruppi armati volontari attaccarono gli insediamenti rakhine, le pagode e i monasteri buddisti. I rohingya, inoltre, accompagnarono la riconquista britannica del Rakhine, in seguito alla quale i gruppi rakhine furono repressi con la forza.
Con la decolonizzazione, i musulmani di ritorno temettero giustamente di essere accorpati allo stato birmano postcoloniale e organizzarono una rivolta (mujahid) a favore dell’annessione del Rakhine settentrionale al Pakistan orientale, scatenando una serie di operazioni di controinsurrezione dell’esercito birmano per tutti gli anni cinquanta. Un’eredità fondamentale di questi spostamenti di popolazioni causati dal secondo conflitto mondiale e dai successivi disordini è che i musulmani che via via tornarono nel Rakhine furono bollati come “immigrati clandestini bengalesi”.
Questa storia complessa e drammatica è il motivo per cui i rohingya (termine diventato comune solo dopo l’indipendenza della Birmania) non sono tra le 135 minoranze etniche ufficialmente riconosciute e sono classificati come “bengalesi”.
Data l’esperienza del colonialismo britannico, non sorprende che il nazionalismo popolare birmano abbia avuto in dall’inizio un tono fortemente razzista, in particolare nei confronti dei cosiddetti kalar, gli “intrusi” dalla pelle scura provenienti dal subcontinente indiano. L’obiettivo fondamentale del governo dopo l’indipendenza fu la birmanizzazione dell’economia, dominata dagli stranieri. Memore del trauma degli anni trenta, nel 1953 il governo nazionalizzò la terra e vietò l’affitto privato agli agricoltori (divieto che in larga misura rimane ancora oggi), sradicando quel che restava della classe dei proprietari terrieri indiani.
La birmanizzazione culminò nella nazionalizzazione di 15mila imprese dopo il colpo di stato militare del 1962, che spinse tra i 125mila e i 300mila birmani di etnia indiana ad abbandonare il paese. Questi si aggiunsero ai 400mila indiani, britannici e anglobirmani già evacuati durante la decolonizzazione. Il movimento 969, nato dopo il 2011, che incoraggia i buddisti a boicottare le imprese musulmane, è solo l’ultimo rigurgito di questo nazionalismo economico xenofobo.
La colonizzazione lasciò anche profondi traumi religiosi. Dopo aver causato la perdita della sovranità indigena e l’afflusso dei musulmani, i britannici si rifiutarono di assolvere ai tradizionali doveri del potere sovrano buddista – per esempio quello di nominare gli abati – favorendo la crescita delle attività dei missionari cristiani e provocando una profonda crisi culturale tra i buddisti. La restaurazione del buddismo diventò così un elemento centrale del nazionalismo bamar, e sia la religione sia la cultura bamar diventarono elementi dominanti degli sforzi di ricostruzione postcoloniale, mentre le minoranze etniche e religiose furono sempre più marginalizzate.
Oggi molti buddisti in Birmania sono sinceramente convinti che, come nel periodo coloniale, la loro religione e la loro cultura siano minacciate da un’“onda anomala” di immigrazione musulmana. L’Indonesia, che ha avuto imperi buddisti e indù, è spesso spesso citata come esempio di quello che potrebbe succedere in Birmania se non saranno prese contromisure drastiche. In realtà questi timori non hanno alcuna base oggettiva: solo il 3 per cento della popolazione birmana è musulmana, contro circa l’89 per cento di buddisti. ma la cosa è irrilevante, perché la maggior parte della gente è condizionata da anni di propaganda del governo, cattiva istruzione e deferenza generalizzata verso i monaci buddisti, alcuni dei quali hanno fomentato l’islamofobia. Del resto, la paura di essere culturalmente travolti non è nuova, e non è legata solo alla transizione “democratica” cominciata dopo il 2010. Ci sono state rivolte antimusulmane anche durante il regime militare, nel 1997 e nel 2001, e il famigerato monaco nazionalista Ashin Wirathu, esponente del maBatha, l’associazione per la tutela della razza e della religione, è stato arrestato per istigazione alla violenza nel 2003.
Questa vicenda spiega perché oggi ci sia un difuso consenso per il maBatha, per le leggi sulla tutela della razza e della religione (che discriminano i musulmani) e per la pulizia etnica condotta dall’esercito birmano nel Rakhine. e spiega perché, politicamente, Aung San Suu Kyi ha uno spazio di manovra così limitato, anche se bisogna dire che non ha fatto quasi nulla per smontare queste pericolose leggende o per favorire l’armonia tra le diverse comunità. Anzi, L’uso del termine “bengalesi” da parte dei suoi collaboratori, i suoi commenti passati sul “potere globale musulmano” e l’epurazione dei candidati musulmani dalle liste elettorali dell’Nld nel 2015 fanno pensare aun certo pregiudizio antimusulmano.
L’espulsione originaria alla base delle continue persecuzioni dei rohingya (e più in generale degli attacchi antimusulmani) c’è un intreccio di fattori materiali e ideologici che vanno oltre la questione superficiale e a breve termine dell’appropriazione della terra. molti musulmani sono guardati con sospetto per il solo fatto di essere associati al colonialismo e alla rivolta mujahit. Dopo la ine del colonialismo, anche se il termine “rohingya” veniva usato nei circoli ufficiali, i rohingya non furono mai riconosciuti come uno dei gruppi etnici ufficiali della Birmania. All’inizio avevano il diritto di voto e alcuni di loro furono eletti in parlamento (uno diventò anche viceministro). Poi però, con l’ascesa del nazionalismo buddista bamar e le crescenti resistenze delle minoranze etniche contro l’omologazione (che portarono allo scoppio di una delle guerre civili più lunghe del nostro tempo), lo stato diventò sempre più ostile verso i musulmani.
Nel 1962 l’esercito espulse i soldati musulmani. Nel 1977 si diffuse la voce che molti “bengalesi” avevano approfittato dei blandi controlli alla frontiera per attraversare il confine dal Pakistan orientale (Bangladesh dal 1971) ed entrare nel Rakhine: il regime appoggiato dai militari reagì ordinando una serie di operazioni di “pulizia” alla vigilia del censimento nazionale e rimpatriando in Bangladesh 200mila musulmani.
Poi, sulla base della nuova legge sulla cittadinanza del 1982, i rohingya furono gradualmente privati dei loro diritti. Spesso non potevano nemmeno dimostrare di essere residenti in Birmania, anche perché i documenti ufficiali erano stati distrutti e loro erano stati costretti a rimpatriare con la forza. Dopo il 1988, quando i rohingya assunsero un ruolo di primo piano nel movimento per la democrazia sperando di recuperare i loro diritti, furono ancora una volta vittime di una violenta repressione, che nel 1992 provocò un nuovo esodo di 250mila persone verso il Bangladesh.
In tutto questo bisogna distinguere la posizione dei rakhine buddisti, che si considerano “vittime” sia del numero crescente di “immigrati clandestini bengalesi” (anche se il rapporto è ancora di due a uno a loro favore) sia del governo centrale a maggioranza bamar. Il Rakhine è il secondo stato più povero della Birmania, e il poco sviluppo che c’è stato si deve a una manciata di megaprogetti – che non creano occupazione a livello locale e i cui benefici sono monopolizzati dal regime e dagli investitori stranieri – o alla crescita di un’industria ittica con alti tassi di sfruttamento. In alcuni villaggi del Rakhine le condizioni non sono molto diverse da quelle dei campi profughi dove vivono molti rohingya. In una situazione di scarsità di risorse e di forte competizione economica, i rakhine guardano con risentimento all’attenzione che l’occidente riserva ai rohingya e percepiscono come “di parte” le donazioni e i finanziamenti stranieri. Questo spiega gli attacchi ai camion degli aiuti e le proteste contro le sedi dei donatori, considerati colpevoli di aver offeso il buddismo.
Con la transizione democratica cominciata nel 2011 i rakhine hanno colto l’occasione per organizzarsi politicamente, conquistando la maggioranza all’assemblea dello stato. Molti hanno appoggiato le brutali azioni dell’esercito e della polizia come forma di rivalsa contro i loro avversari, e hanno approfittato dei disordini per occupare i terreni coltivati dai rohingya. Alcuni, invece, sono scappati con i rohingya, a riprova della disperazione e della povertà condivise. Non è un caso che condizioni così straordinariamente difficili abbiano scatenato la violenza di entrambe le comunità. Le prime milizie rakhine antimusulmane si formarono negli anni quaranta; oggi ne sono attive tre, ognuna delle quali promuove l’“autodeterminazione” del Rakhine e rifiuta i rohingya in quanto “bengalesi”. anche i rohingya hanno più volte preso le armi, e il vero mistero è come mai l’Arakan Rohingya Salvation Srmy (Arsa) abbia impiegato tanto a formarsi di fronte a simili persecuzioni e violenze. Gli attacchi dell’Arsa ai posti di polizia e contro l’esercito birmani – l’ultimo dei quali, alla fine di agosto, ha provocato l’offensiva armata che ha provocato l’attuale esodo dei rohingya – sono atti disperati di uomini armati di catapulte e “pistole” di legno.
Insomma, anche se le semplici motivazioni economiche non vanno sottovalutate, il quadro politico ed economico dietro l’attuale crisi è molto più complesso. Come per altri conflitti etnici nel paese, le tensioni sono il riflesso della crisi da cui è nato lo stato birmano. La Birmania è stata fondata senza un vero consenso dei vari gruppi etnici sulla natura dello stato o sull’organizzazione del potere e la divisione delle risorse. Gli sciovinisti bamar buddisti, impreparati a fare le concessioni necessarie per assicurarsi la partecipazione degli altri gruppi alla costruzione dello stato, hanno cercato di imporre la loro visione con la forza, aprendo la strada a una serie di scontri nelle zone di confine. I rohingya sono quelli che hanno sofferto di più, perché si sono visti negare anche lo status di minoranza. Mentre lo stato bamar cerca di accorpare con la forza i gruppi etnici riconosciuti all’interno dell’Unione birmana, fa di tutto per espellere con la forza i rohingya.
Il campo profughi di Balukali, Cox’s Bazar, 2 ottobre 2017
Fonte: Internazionale 1128
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LA FINE DELLA FAVOLA BIRMANA
di Thant Myint-U
Finalcial Time
Oggi la situazione in Birmania è preoccupante, come non accadeva dai giorni più bui della dittatura militare. L’attenzione di tutto il mondo si è giustamente concentrata sulla crisi dei rohingya e sulle centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini in fuga, uno dei più grandi esodi di profughi dalla seconda guerra mondiale.
Il peggio potrebbe non essere finito. I bisogni essenziali sono tutt’altro che soddisfatti e non si è ancora cominciato a parlare seriamente di un possibile ritorno dei profughi né di un’inchiesta sulle violazioni dei diritti umani. C’è la possibilità che i paesi occidentali rispondano con sanzioni mirate. anche se non sono state imposte sanzioni formali, l’interesse degli investitori stranieri e il numero di turisti subiranno di sicuro un crollo. Questo in un momento in cui la fiducia degli investitori locali è debole e il settore bancario instabile.
Presto milioni di persone tra le più povere dell’Asia potrebbero dover affrontare un futuro drammatico. Il minimo peggioramento economico minaccerà direttamente il processo di pace in Birmania, già molto fragile. Nel paese sono attivi una ventina di “gruppi etnici armati”, il più grande dei quali conta più di 20mila uomini, e centinaia di milizie locali. Negli ultimi anni in più occasioni ci sono stati scontri violenti e lungo i confini con la Thailandia e la Cina vivono quasi 500mila sfollati.
La crescita economica da sola non sarà sufficiente a portare la pace, ma senza la spinta di un’economia inclusiva e in rapida crescita il processo di pace esaurirà il suo slancio. L’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), responsabile degli attacchi che lo scorso agosto hanno scatenato l’ultima ondata di violenze, potrebbe potrebbe colpire ancora. In uno scenario ancora peggiore, i gruppi jihadisti internazionali potrebbero prendere di mira le città della Birmania centrale, dove altri due milioni di musulmani non rohingya vivono in pace, almeno per il momento, con i loro vicini buddisti, indù e cristiani. Il terrorismo importato dall’estero potrebbe innescare nuove violenze tra le diverse comunità, con conseguenze devastanti.
Molti in occidente hanno visto per decenni la Birmania quasi esclusivamente attraverso le lenti di una lotta tra il movimento per la democrazia, guidato da Aung San Suu Kyi, e una giunta militare senza volto. Pochi si sono sforzati di comprendere la profondità e le complessità delle sfide del paese o hanno cercato di trovare una soluzione pragmatica. I fallimenti nella gestione del potere hanno avuto un costo politico minimo. Nel paese circola il mito della Birmania come una nazione ricca che ha sbagliato, di un’epoca d’oro non troppo lontana rovinata da dittatori militari. Il corollario di tutto questo è che un unico cambiamento, per esempio la nascita di un governo democratico, basti a sprigionare il potenziale del paese e a restituirgli il posto che gli spetta tra i più ricchi della regione. Non c’è traccia di un vero programma di modernizzazione. Si tende a sorvolare sugli effetti di vent’anni di sanzioni, trent’anni di isolamento volontario, cinquant’anni di governo autoritario, settant’anni di guerre interne e più di un secolo di colonialismo. Ovunque si vedono le conseguenze di decenni in cui la spesa pubblica per la sanità e l’istruzione è stata cancellata. Le tendenze xenofobe sono radicate in tutti gli schieramenti politici. Le istituzioni statali sono fragilissime e in molte parti del paese quasi assenti. Di sicuro alcune cose sono migliorate negli ultimi anni: la vita politica oggi è più libera rispetto a qualsiasi momento negli ultimi cinquant’anni e si sta almeno tentando di compiere una transizione dalla dittatura militare a un governo quasi democratico. Nessuno vuole tornare all’isolamento. ma l’insieme delle side che oggi il paese ha di fronte è così imponente che è difficile capire come questa tendenza positiva possa sopravvivere.
Senza lungimiranza
Non si tratta solo del processo di pace, dell’economia e della crisi dei rohingya. Migrazioni, urbanizzazione, cambiamento climatico e la rivoluzione delle telecomunicazioni stanno ridefinendo la società birmana. I rapporti con la Cina sono in una fase critica, con la possibilità che enormi progetti infrastrutturali ridisegnino la geografia del paese. al contempo quasi nessuno si sofferma sul quadro a lungo termine.
Pensiamo allo stato del Rakhine settentrionale, che oggi è teatro di violenze e domani potrebbe essere il luogo dove torneranno i profughi: cosa sarà tra dieci o quindici anni? Una fermata lungo la nuova autostrada tra Cina e India? O sarà sommerso a causa del cambiamento climatico?
Perfino un governo esperto e aiutato da tecnocrati preparati avrebbe difficoltà a gestire ciò che la Birmania sta affrontando, per non parlare dei possibili progetti per il futuro. Il mondo fa bene a dare
priorità alla crisi in corso. ma è altrettanto importante liberare il campo una volta per tutte dalla favola birmana e capire che lavorare in questo paese significa avere a che fare con uno stato quasi fallito. Bisogna raddoppiare gli sforzi per valorizzare le risorse del paese, soprattutto attraverso investimenti nella sanità e nell’istruzione; e, cosa forse più importante, contribuire a trasmettere un’idea di futuro nuova e positiva. Altrimenti la crisi di oggi sarà solo la prima di una lunga serie.
IL GRANDE ESODO
di Francis Wade
Quelli del 2012 sono stati i primi focolai di violenza tra buddisti e musulmani in Birmania mentre il paese attraversava la fase di transizione dal regime militare, e si sono conclusi con la quasi totale segregazione delle due comunità in gran parte della zona occidentale del paese. Diversi mesi dopo, sempre nel 2012, sono andato a intervistare i rohingya nei campi profughi. Ma né io né la maggior parte dei giornalisti arrivati sul posto ci siamo preoccupati di parlare con l’“altra parte”, i buddisti rakhine che si erano resi responsabili di molte violenze ma che a loro volta, anche se in misura minore, avevano subìto aggressioni dai rohingya. all’epoca nessuno sapeva esattamente quali forze, interne ed esterne, avessero spinto i buddisti a commettere quelle atrocità.
Ho pensato al ragazzo del villaggio quando, alla fine di agosto, in Birmania è cominciata un’ondata di violenze molto più sanguinosa. a nord di Sittwe, in un piccolo lembo di terra, sono stati incendiati più di duecento villaggi. In meno di due mesi quasi 600mila rohingya sono scappati in Bangladesh per sfuggire alla campagna di terrore dell’esercito birmano in risposta agli attacchi di un gruppo di ribelli rohin magya contro alcune postazioni della polizia.
Le testimonianze dei profughi, che parlano di esecuzioni sommarie dei civili e di donne stuprate dai soldati birmani, sono sconvolgenti, ma altrettanto sconvolgente è l’atteggiamento cinico e sarcastico di una fetta ampia e trasversale della società birmana di fronte alle violenze. Questo clima si avverte non solo nel Rakhine, dove i contrasti tra la maggioranza rakhine e i rohingya hanno radici profonde, ma in tutto il paese; e non solo tra la gente comune, ma anche nei palazzi del potere. “Guardate quelle donne”, ha detto recentemente un funzionario del Rakhine quando gli hanno chiesto dei presunti stupri di massa. “Chi mai le violenterebbe?”.
Il sostegno popolare alla campagna dell’esercito ha portato alla luce un violento pregiudizio contro i rohingya. La forza e la quasi universalità di questo sentimento stride con la lettura semplicistica degli osservatori occidentali, secondo i quali le tensioni etniche e religiose in Birmania esistono da molto tempo ma sono state oscurate tanto dalla dittatura militare quanto da una visione binaria della situazione politica del paese: da una parte la società, virtuosamente unita contro i militari, dall’altra il regime.
Paura della democrazia
Una nuova sintonia
Queste paure sono state abilmente sfruttate dai militari e, più recentemente, dai leader nazionalisti in lotta per il potere nella nuova Birmania. e spiegano in parte perchéla campagna militare contro i rohingya non ha perso legittimità neanche tra chi condivide gli ideali democratici: le operazioni nel Rakhine sono viste da molti come un mezzo per difendere una democrazia giovane. ma il fatto che la persecuzione di un’intera popolazione possa essere considerata moralmente giustificabile non si spiega solo con l’ansia delle tensioni politiche.
C’è evidentemente la convinzione che i rohingya siano portatori di una corruzione innata che va sradicata a tutti i costi. Durante la transizione democratica del paese la percezione della portata di questa minaccia è cambiata, e oggi l’ostilità nei confronti dei rohingya non è più circoscritta alle città e ai villaggi della parte occidentale del paese. È dai tempi del regime militare che le varie componenti della società birmana non sembravano così in sintonia, a prescindere dalle differenze geografiche. Oggi, però, sono unite da un obiettivo profondamente diverso.