Il manifesto, 15 ottobre 2015 (m.p.r.)
Nel 1948 nasceva l’Italia nuova, e si presentava al mondo con Ladri di biciclette. Oggi, abbiamo i ladri di Costituzione.
Se ladro è chi illecitamente si appropria di un bene che non gli appartiene e sul quale non ha titolo a mettere le mani, tale è appunto il caso di quelli che stanno approvando la riforma della Carta fondamentale. Perché non avevano legittimazione sostanziale a farlo, per la incostituzionalità della legge elettorale. Perché non avevano mai ricevuto alcun mandato dal popolo italiano, non essendo mai stata la riforma — questa riforma — illustrata e discussa in un contesto elettorale per l’inserimento in un programma di governo. Perché hanno usato ogni mezzo e forzature di prassi e regolamenti per mettere le mani su un bene comune e prezioso, scrigno di identità e storia del paese. Perché l’hanno fatto per motivi futili o abietti.
Ma il furto non si è certo consumato ieri, con il voto di 179 anime morte per il disegno di legge Renzi-Boschi. L’attività criminosa viene da lontano, dal patto del Nazareno e dalla proposta del governo. È continuata e aggravata, per le ripetute minacce di crisi, gli argomenti inconsistenti quando non mendaci, la sordità assoluta per critiche e dissensi, il disprezzo per il confronto democratico. E quel che stava per accadere è stato assolutamente chiaro quando l’esangue minoranza Pd ha esalato l’ultimo respiro, seguendo il pifferaio magico di Palazzo Chigi. Si è così condannata alla irrilevanza, unico peccato mortale che la politica non assolve mai. E anche il Pd di Renzi-Verdini nel suo insieme ha rotto ogni legame con i propri antenati, i veri padri fondatori della Repubblica. Come quegli eredi incapaci che dissipano nel vizio e nel gioco il patrimonio di grandi e nobili famiglie. Un partito non più liquido, ma liquidato.
Tutto era già scritto. Ma proprio per questo non siamo d’accordo con Zagrebelsky. Il suo argomento è che firmare l’articolo pubblicato sul manifesto da parte di alcuni costituzionalisti era inutile, non essendo possibile farsi ascoltare. Altra cosa sarà quando ci sarà il confronto davanti al popolo sovrano. Ma il punto è che quel confronto è già in atto, dal primo avvio della vicenda. La battaglia l’ha aperta Renzi, che da subito ha cercato la chiave del consenso populistico e demagogico, in una evidente prospettiva elettoralistica. Anche il referendum sarà uno scontro plebiscitario sulla persona del leader e sull’affidamento fideistico alle sue scelte. La campagna referendaria è già in corso anche se il procedimento ex art. 138 della Costituzione è ancora lontano dal concludersi. Si intreccia con il taglio delle tasse, l’uscita dalla crisi, le cifre ballerine sui posti di lavoro, l’ossessiva proiezione di un Italia nuova che riparte.
Sappiamo bene che contro un avversario formidabile abbiamo solo il risveglio della ragione e delle coscienze. Un percorso difficile. Ma comunque esiste una rabbia civile che non consente il silenzio. Talvolta, parlare è un dovere che non tollera calcoli sottili, pur se nessuno ascolta. Inoltre, le battaglie si fanno anche sapendo che si può perdere. Proprio la nascita della Repubblica insegna. I nostri padri e le nostre madri hanno fatto molte cose che al momento potevano sembrare disperatamente inutili. Tuttavia le hanno fatte, e molti hanno pagato un alto prezzo negli affetti, nel lavoro, nella vita. Ora tocca a noi difenderne l’eredità.