«La politica, prima di preoccuparsi del dosaggio della quantità di libertà di coscienza somministrabile ai parlamentari, dovrebbe seriamente chiedersi se una materia affrontata rientri pienamente nella sua competenza o se questa spetti in primo luogo ai diretti interessati».
La Repubblica, 10 febbraio 2016 (m.p.r.)
La strada fin troppo lunga verso un primo significativo riconoscimento delle unioni civili continua a incontrare ostacoli visibilmente pretestuosi anche quando si fa appello a grandi principi. È accaduto con la critica all’utero in affitto, con l’invocazione dei diritti dei minori e, infine, con il richiamo della libertà di coscienza. Ma la prova politica che comincia oggi in Parlamento deve liberarsi da strumentali richiami che vogliono impedire ancora una volta un risultato di civiltà della cui importanza e urgenza i cittadini sono ormai ben consapevoli.
La parola “coscienza” incontra sempre più spesso, e spesso ambiguamente, la politica. Per ragioni tra loro diverse. La volontà di affermare una forte convinzione morale o religiosa, l’intenzione di manifestare un dissenso politico, il fine di differenziarsi e di tenere vivo il pluralismo. È la rivendicazione di una libertà di scelta diversa dalla linea del partito o della maggioranza del gruppo parlamentare al quale si appartiene.
Una rivendicazione che non sempre viene accolta. Ce lo ricorda la vicenda di alcuni senatori del Pd che, durante la discussione sulla riforma costituzionale, chiesero di votare in maniera difforme dalla linea del partito, e si trovarono sostituiti nella commissione dove le votazioni si sarebbero svolte. Ma abbiamo appena assistito ad un apprezzamento della libertà di coscienza nelle variegate indicazioni sulle unioni civili, com’è accaduto, tra mille polemiche, per i senatori del Movimento 5Stelle. Intanto, si dilata l’area dove la richiesta di libertà di coscienza si manifesta, da quando le questioni “eticamente sensibili” hanno cominciato ad occupare il proscenio della discussione pubblica. Così questa libertà è stata invocata anzitutto per i parlamentari chiamati a dare le regole nelle materie del nascere, vivere, morire, dei limiti e delle responsabilità della ricerca scientifica, alle quali si sono poi aggiunte le scelte in materia costituzionale.
Il bisogno di richiamare esplicitamente questa libertà nasce dalla crisi di una storica prerogativa del parlamentare, quella di esercitare “le sue funzioni senza vincolo di mandato” (così l’articolo 67 della Costituzione). Ma, liberati formalmente da quell’obbligo, gli eletti hanno poi conosciuto il ben più stringente vincolo rappresentato dall’appartenenza ad un partito che, in sede parlamentare, si trasforma nell’accettazione della “disciplina di partito”. Un vincolo che può essere sciolto solo dallo stesso partito, o gruppo parlamentare, che di volta in volta, e in casi ritenuti eccezionali, può lasciare liberi i suoi di votare come meglio credono. Ma che cosa diviene una libertà di coscienza concessa dall’alto, subordinata al permesso dei superiori? Quanti parlamentari sono disposti a portare fino in fondo la loro richiesta, che diventa una sfida, costi quel che costi?
Per rispondere a queste domande, bisogna riferirsi al contesto, mutevole, nel quale si discute di libertà di coscienza. Negli ultimi tempi si è manifestata una forte nostalgia per il vincolo di mandato. Lo ha fatto esplicitamente, fin dalle sue origini, proprio il Movimento 5Stelle. E si è proposto di riconoscere anche in Italia il diritto degli elettori di revocare il mandato a singoli parlamentari, com’è previsto in altri paesi (negli Stati Uniti, ad esempio, sia pure con limiti e applicazioni del tutto rare). Sono reazioni evidenti ad un trasformismo parlamentare scandaloso e davvero senza precedenti, frenato in un passato neppure troppo lontano dall’esistenza dei partiti di massa e dalle forti connotazioni ideali che ne costituivano il cemento. Scomparsi quei partiti, sostituiti da oligarchie con bassa legittimazione popolare, ecco riemergere un bisogno di rapporto diretto tra elettori e eletti, per garantire un controllo sull’azione dei parlamentari e per inserire così proprio un embrione di democrazia diretta nel contesto in crisi di quella rappresentativa. Non a caso i parlamentari5Stelle sono definiti “portavoce”, e non “rappresentanti” dei cittadini.
Il tema della libertà di coscienza deve essere valutato in questo quadro di tensione tra difesa dell’autonomia del parlamentare (non posso “portare il cervello all’ammasso”, si diceva un tempo), coerenza dell’azione politico-parlamentare e suo controllo diffuso. Dobbiamo concludere che, in questa dimensione, la coscienza individuale ha le sue ragioni che la ragion politica non conosce?
Diciamo piuttosto che siamo di fronte alla necessità di ripensare lo stesso ruolo del parlamentare, per il quale la libertà nel voto può essere un modo per arricchire la discussione pubblica. Si tocca così il nodo aggrovigliato del voto segreto, sempre più presentato come un ostacolo alla trasparenza e alla moralità del parlamentare. Ricordiamo, però, che il parlamento italiano è diventato, e rischia di rimanere, un parlamento di nominati da una élite ristretta, sempre più incline a premiare la fedeltà e a restringere ogni possibilità di dissenso. So bene che uno spazio sottratto all’occhio dell’opinione pubblica è assai più luogo di imboscate e di manovre inconfessabili che opportunità per l’agire libero. Ma possiamo risolvere un problema reale negando che esista?
Vero è che gli impegni assunti dai partiti nei confronti dei cittadini che li hanno votati esigono poi comportamenti collettivi in grado di rispettarli, sì che non tutto può essere rimesso alla variabile opinione del singolo parlamentare. È comprensibile, quindi, che vi sia una valutazione politica dei casi in cui le ragioni della coscienza individuale possono prevalere sull’omogeneità dei comportamenti di gruppo. Ma quando le decisioni parlamentari diventano norme che incidono direttamente sull’autonomia delle persone nel governare la loro vita, la questione della libertà di coscienza deve essere considerata anche, o soprattutto, da un diverso punto di vista.
Qui la libertà da tutelare è, in primo luogo, quella della persona che deve compiere le scelte di vita. Il problema, allora, non riguarda la libertà di coscienza di chi stabilisce le regole: investe la legittimità stessa dell’intervento legislativo in forme tali da cancellare, o condizionare in maniera determinante, quelle scelte. Altrimenti si determina una asimmetria pericolosa: la libertà di scelta dei legislatori può divenire massima, quella dei destinatari della norma minima.
Il diritto deve abbandonare la pretesa autoritaria di impadronirsi della vita delle persone, di espropriarle del diritto fondamentale all’autodeterminazione. La politica, prima di preoccuparsi del dosaggio della quantità di libertà di coscienza somministrabile ai parlamentari, dovrebbe seriamente chiedersi se una materia affrontata rientri pienamente nella sua competenza o se questa spetti in primo luogo ai diretti interessati. E, in questo caso, fermarsi, senza doversi poi porre aggrovigliati e impropri problemi di libertà di coscienza. La discussione sulle unioni civili si sarebbe giovata assai di questa consapevolezza.
Questa linea non è volta a confinare ciascuno nella sua sfera privata, ma pone in modo corretto il rapporto tra sfera privata e sfera pubblica che, per essere riconosciuta, non deve affidarsi alla propria invadenza. Al contrario, la sua legittimità deriva in primo luogo dal rispetto per la competenza delle persone. Martha Nussbaum, concludendo la sua appassionata analisi della libertà di coscienza americana, ci ricorda che «l’eguale libertà di coscienza è difficile da creare, e ancor più difficile da realizzare ». Punto cardine del modo laico d’intendere il rapporto del cittadino con l’intero sistema istituzionale.