Il riformismo urbano ha esaurito la spinta propulsiva. Certo, non mancano le iniziative brillanti di tanti amministratori ma non si vede ancora una capacità inventiva di policies almeno paragonabile a quella che si espresse nella rottura di Tangentopoli: rapporto diretto elettori-sindaco, l'apertura internazionale, le politiche della mobilità, le iniziative culturali, l'avvento dell'architettura contemporanea, l'introduzione del mercato nei servizi, le riforme del New Public Managment, ecc. Questi sono ancora oggi i capitoli fondamentali delle agende di governo delle amministrazioni locali - con l'unica aggiunta delle politiche della sicurezza - ma vengono attuate con fatica crescente a causa dei patti di stabilità e della bulimica produzione normativa statale.
Oggi ci troviamo ad un punto di rottura del sistema politico non meno significativo di quello del '93 e dovrebbero esserci le condizioni per un ripensamento delle politiche urbane. Soprattutto il PD dovrebbe essere protagonista di questa innovazione non solo in quanto forza centrale dell'alternativa, ma perché altrimenti la sua funzione di governo ne risulterebbe appannata. I segnali si sono visti nello smacco dei suoi candidati sindaci in città importanti come Milano, Napoli, Genova e Cagliari. Se ne è data una lettura superficiale, mettendo in rilievo le vicende del ceto politico e le regole delle primarie. Ma si è fatta sentire anche la crisi della cultura riformista.
Innovare significa anche dimenticare. Per scoprire nuove piste di ricerca bisogna mettere in discussione la stagione degli anni Novanta. Essa è stata una grande politica riformatrice e proprio per questo tende a conservare un primato teorico e pratico anche quando viene smentita dai fatti. Di tale difficoltà indico tre esempi.
Con la scusa del debito – Ai tagli dei bilanci si è risposto gonfiando i diritti edificatori per ottenere in cambio qualche opera pubblica. Si è inventata una zecca immobiliare che stampa una sorta di carta moneta attraverso la creazione di rendita urbana. I suoi plusvalori vengono scambiati tra imprese e banche anche a prescindere dalla effettiva realizzazione, come appunto una moneta circolante. Non solo, la ristrutturazione di grandi gruppi finanziari e la stessa solvibilità di molte banche dipendono dalla possibilità di esigere in futuro l’attuazione di quelle potenzialità edificatorie. Questa economia di carta e di mattone trova spesso giustificazione e impulso proprio nella scarsità di risorse delle amministrazioni comunali.
Ma perché le città si sono impoverite? Eppure negli ultimi venti anni c’è stato un boom edilizio paragonabile a quello del dopoguerra con una fortissima crescita dei valori immobiliari, non solo nelle nuove edificazioni ma soprattutto nel già costruito. Questo incremento di ricchezza è andato quasi tutto a vantaggio dei proprietari che lo hanno inserito nel circuito finanziario senza restituire granché in termini di investimenti collettivi.
Anzi, si è trattato spesso di un arricchimento immeritato, poiché frutto di una rendita di posizione che aumenta non in base alle iniziative del proprietario, ma solo in ragione del miglioramento generale della vita urbana. La ricchezza prodotta dalla cittadinanza operosa viene acquisita dal ceto parassitario. E tutto ciò introduce un fattore pesantemente distorsivo nell’economia urbana. Rispetto al profitto industriale la rendita immobiliare offre plusvalori di gran lunga superiori, senza neppure l'onere di organizzare un ciclo produttivo.L’acqua va dove trova la strada e in queste condizioni le risorse disponibili vengono attratte dagli usi speculativi a discapito delle attività produttive. La città diventa un’idrovora di rendite e per le innovazioni tecnologiche rimangono solo le retoriche dei convegni.
Nel contempo la diseguale appropriazione di valore che ha prodotto il debito si perpetua proprio con la scusa del debito. Infatti, le amministrazioni che non hanno saputo o potuto acquisire una parte significativa della ricchezza immobiliare - spesso determinata proprio dal loro buongoverno - sono costrette a mettere in circolazione ulteriore rendita per ottenere in cambio le opere pubbliche.
Ciò sembra un guadagno per l'interesse collettivo, ma i valori di quelle opere, spesso presentate come regali alle città, sono inferiori ai costi di gestione e di investimento che le nuove costruzioni autorizzate scaricano sulle casse comunali e costituiscono solo una briciola della valorizzazione acquisita dal proprietario. In questo modo la trasformazione urbana produce arricchimento privato e povertà pubblica in un circuito che crea il debito mentre sembra volerlo risolvere.
Una nuovo riformismo urbano deve invertire questo ciclo. La rendita prodotta dal buongoverno deve tornare in una quota significativa nella disponibilità collettiva in termini di investimenti pubblici. Questi renderanno più bella ed efficiente la città e di conseguenza aumenterà anche il suo valore, in un ciclo virtuoso che migliorerà sia la vita pubblica sia le opportunità private. Se la rendita viene ripartita equamente non solo non determina debito ma contribuisce al benessere della città.
La retorica competitiva – Ogni sindaco ha raccontato una storia di sviluppo alla propria città. Si è favoleggiato sulla new-economy, sulle classi creative, sulle innovazioni tecnologiche come se fossero processi reali e direttamente dipendenti dall'azione dei Comuni. Ma era solo un omaggio alla retorica economicistica del tempo. In realtà quasi tutte le città italiane hanno partecipato passivamente al declino della produttività determinato dalla difficoltà del Paese a misurarsi con le nuove dinamiche mondiali. Semmai, alle imprese che si ritiravano dalla competizione internazionale il tessuto urbano ha offerto il rifugio non solo della rendita ma anche dei monopoli pubblici privatizzati male (aeroporti, telefoni, energia ecc.).
Nella sfera del consumo, invece, il contributo delle città è stato significativo, in particolare con la diffusione dei grandi centri commerciali che hanno avuto effetti marcati sulla struttura urbanistica a favore dell'abbandono di vecchi quartieri e della diffusione dello sprawl a grande scala. Anche i modelli di consumo si sono fortemente divaricati - dal livello massificato a quello del loisir - fino a diventare quasi gli unici caratteri distintivi dei luoghi: dal mall dell'hinterland, al nail-shop della periferia, al loft dell'ex zona industriale. Inoltre, c'è stata un'azione molto positiva delle amministrazioni nella qualificazione dei consumi culturali e nell’attrazione dei flussi turistici.
Tutto ciò ha modificato gli stili di vita urbani ed ha conferito alle città immagini suadenti che sono state raccontate dai sindaci sul lato della produzione pur essendo maturate su quello del consumo. Oggi, però la crisi economica ha svelato l'insostenibilità di quel modello dei consumi. L'impoverimento dei ceti medi e dei lavoratori indebolisce la domanda e nel contempo l'ossessione dell'offerta consumistica approda ad una sovrapproduzione di merci.
È saltato quindi il rapporto tra produzione e consumo. Un contributo a ritrovare l'equilibrio potrebbe venire da nuove politiche urbane, non solo nel campo già positivamente fertilizzato delle iniziative culturali, ma in diversi altri settori: la mobilità sostenibile, il recupero urbanistico, il prendersi cura delle persone, la comunicazione digitale, la filiera corta dell'agricoltura, il ciclo dei rifiuti, la green economy, ecc. In tal senso le aziende dei servizi pubblici andrebbero ripensate come strumenti di politica economica proprio per stimolare nuovi modelli di consumo e di produzione, per creare lavoro curando i servizi della città.
Anche qui però bisogna liberarsi dalle dottrine del ventennio che per realizzare la mitica concorrenza hanno imposto una perenne e inconcludente riforma delle aziende locali. Almeno una volta l'anno il legislatore ha modificato le norme di riferimento ma i monopoli non sono stati scalfiti.
Tutto ciò ha distolto l'attenzione dei Comuni che si è rivolta più agli asset proprietari che alla qualità del servizio, più alle procedure che agli investimenti, più alle nomine che ai diritti degli utenti. E il paradigma competitivo è stato esteso addirittura all'intera città sempre più interpretata come un'impresa esposta alla concorrenza internazionale, anche se nessuna analisi ha mai dimostrato un’evidenza empirica di tale fenomeno. La competizione tra le città è una delle tante ideologie degli anni Novanta che rientrano nella categoria definita da Paul Krugman del Pop Internationalism (trad. it. Un'ossessione pericolosa, Etas).
Ma le retoriche politiche non sono mai senza conseguenze pratiche. Quel paradigma ha rappresentato la città come un attore unico che si muove nel teatro economico ed è servito alle classi dirigenti per raccontare il proprio primato, ma ha oscurato le differenze sociali e culturali che attraversano e talvolta lacerano la vita urbana. Spesso il risveglio è stato amaro, ad esempio, quando è finito il Modello Roma abbiamo scoperto improvvisamente una città frammentata dal disagio sociale e dalle tensioni dell'immigrazione.
Occorre tornare a vedere la città eterogenea, le sue striature civili, le sue mura invisibili, le sue ineffabili esclusioni. E la coesione sociale non può essere una retorica nuova che sostituisce la vecchia senza ripensare le politiche. Bisogna riscrivere le agende di governo portando al primo posto - per l'impegno di risorse economiche, amministrative e culturali - il compito di costruire un moderno welfare che è prima di tutto una questione urbana.
La solitudine dei sindaci – Non a caso il ciclo ventennale è iniziato con la stagione dei sindaci. Questa figura è uscita dalla riforma elettorale del '93 come il perno di qualsiasi intervento riformatore e nella transizione incompiuta di Tangentopoli ha svolto una funzione molto positiva, in gran parte di surroga dei partiti. Tutto ciò ha alimentato un sovraccarico di aspettative e di responsabilità che alla lunga rischiano di sfiancare la stessa funzione istituzionale. Qualche segnale di stanchezza si è palesato nell'ultima tornata amministrativa con un improvviso calo del tasso di conferma dei sindaci uscenti che invece in passato si era attestato sempre su alti livelli.
Bisogna aiutare i sindaci a uscire dalla perniciosa solitudine in cui sono stati rinchiusi a causa dei nodi irrisolti nel sistema politico italiano. E si deve uscirne sia in alto sia in basso. In alto, mettendo in discussione tutta l'impostazione dell'intervento statale che ha abbandonato i contenuti per dedicarsi soltanto alle procedure. I tagli lineari, le vacue promesse federaliste e l'ossessione normativa hanno dominato il campo portando quasi al collasso le amministrazioni locali. Nel contempo sono state abrogate le politiche pubbliche che si occupano della vita concreta della gente, dai trasporti, all'istruzione, ai servizi sociali. E le poche eccezioni hanno seguito indirizzi dannosi o inutili: la legge sulla casa è un paravento per nuove speculazioni edilizie mentre altri paesi europei si danno leggi per diminuire il consumo di suolo; i poteri ai sindaci sull'immigrazione sono indirizzati solo alla sicurezza, con risultati peraltro modesti, nella totale assenza di una strategia nazionale di integrazione dei migranti.
Si è affermata una malintesa autonomia locale che ha significato da un lato caduta di responsabilità dello Stato verso la condizione urbana e dall'altro un suo ipertrofico intervento legislativo sui bilanci e sulle amministrazioni degli Enti Locali. Fino al delirio dell'attuale governo che è arrivato a eliminare livelli istituzionali per risparmiare sui gettoni di presenza, senza avere alcuna idea sul modello di governo del territorio. Occorre rimettere in agenda grandi politiche nazionali per migliorare la condizione di vita urbana, come fanno tanti paesi europei e la stessa Unione con priorità nei programmi strutturali. Sarebbe curioso che non lo facesse proprio la nazione che più di altre ha sempre fatto scorrere la propria linfa vitale nelle reti delle città.
Ma la solitudine dei sindaci va superata soprattutto in basso verso nuove forme di democrazia cittadina. L'uomo solo al comando non ha funzionato nel Paese e ne abbiamo preso atto in modo traumatico. Ma non funziona neppure nelle forme più dolci del governo comunale. I vantaggi iniziali della forte personalizzazione si sono tramutati spesso in evidenti difetti. Doveva assicurare stabilità di lungo periodo, ma il sindaco quasi sempre spreca il secondo mandato pensando a cosa farà da grande. Doveva conferire potenza decisionale, ma quasi sempre questa viene spesa per interventi di corto termine e di sicuro impatto mediatico. Doveva assicurare una relazione diretta con i cittadini, ma più facilmente l'amministratore unico del Comune viene catturato dalle reti dell'establishment urbano.
Si riapre il problema di una democrazia governante, di una mediazione nel corpo sociale, di una influenza reale dei cittadini sulla cosa pubblica. I nuovi sindaci di Milano, Napoli e Cagliari sono stati eletti proprio con questa domanda di superamento dell'uomo solo al comando e i primi passi di quelle giunte hanno cercato di dare risposte concrete alle aspettative. Dalla prossima tornata elettorale potranno affermarsi altre amministrazioni decise intraprendere strade nuove.
«Bisogna mettere in discussione la stagione degli anni Novanta», afferma l’autore, individuando alcuni nodi delle politiche urbane recenti che sono indubbiamenti quelli su cui è più urgente incidere. Non c’è dubbio che quella discussione debba essere aperta, e su eddyburg l’abbiamo fatto fin dall’inizio della vita di questo sito. Ma proprio l’averl seguita con attenzione la stagione degli anni Novanta fin dal suo inizio ci induce ad affermare che essa tutto fu ma certo non - come scrive Tocci - la stagione di «una grande politica riformatrice». Tutt’altro.
Essa è stata la fase della nostra storia nella quale, nel quadro della più generale politica neoliberista e in aperta reazione alla stagione, quella si, delle riforme degli anni Sessanta e Settanta, è proseguita la loro distruzione, iniziata già con la “strategia della tensione” e proseguita negli anni Ottanta. La spallata di Mani pulite ha scoperchiato la pentola del “sacco d’Italia” denominato Tangentopoli, ma non è stata colta dai partiti e dalle istituzioni come l’occasione per riformare la politica e il suo rapporto con il territorio (con l’habitat dell’uomo) e il suo governo. Il vento del neoliberismo ha continuato a imperversare in Italia – tra l’altro nella sua versione più indecente – e il comportamento pratico della sinistra (anzi, delle sinistre) non si è significativamente distinto da quello delle truppe di Berlusconi e Bossi. Troppe vicende delle politiche nazionali, regionali e locali, ampiamente ricordate e commentate su questo sito, lo testimoniano.
Se ripartire da un punto della nostra storia si può e si deve, non è nella stagione occorre ritrovare il punto di partenza. Continuiamo a discutere e a cercare come uscire dall’attuale crisi sociale, politica e culturale, ma non partiamo per favore dalla stagione che ha visto trionfare la svendita dei diritti comuni sul territorio, la dismissione della funzione pubblica, la personalizzazione della politica, la mercificazione di tutto ciò che a merce non può essere ridotto.
Se le elezioni amministrative e i successi delle rivendicazioni referendarie dicono qualcosa, è che nella società italiana – almeno, nella sua parte attiva – i due decenni che sono alle nostre spalle sono già condannati nell’ideologia che li ha nutriti e nella politica che ne ha tracciato il percorso (e.s.)