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Eddytoriale 106 (25.08.2007)
10 Giugno 2008
Eddytoriali 2007
Una polemica si è aperta sull’annuncio, da parte di un esponente del governo Prodi, di misure per incidere diversamente sulle rendite finanziarie e (forse) immobiliari. Al disagio di altri membri del governo (tra cui lo stesso premier) si è accompagnato il feroce assalto del capo degli industriali a ogni ipotesi di tassazione delle rendite.

La questione delle rendite è un argomento scottante, sotto molti punti di vista e da moltissimi anni: sia per i territori, le città, i paesaggi, il loro assetto, le condizioni di vita degli abitanti, la permanenza (meglio, la scomparsa) delle qualità e delle testimonianze in essi sedimentate, sia per l’economia del nostro paese. La quota della ricchezza del paese che va alla rendita è sottratta ai salari e ai profitti, quindi riduce la possibilità di utilizzare i maggiori salari per allargare i consumi, e quella di reinvestire il profitto nel processo produttivo applicandovi ricerca e innovazione. A partire dagli anni sessanta del secolo scorso, accanto al drenaggio di ricchezza provocato dalla rendita immobiliare (contro la quale non a caso si era scagliato un predecessore di Luca di Montezemolo, l’avvocato Gianni Agnelli) si è via via accresciuto quello provocato dal largo investimento nelle rendite finanziarie.

Oggi rendite finanziarie e rendite immobiliari sono strettamente intrecciate, e pesano fortissimamente sul nostro paese. Lo avevano compreso gli estensori del programma di governo della formazione “Uniti per l’Ulivo”: il documento sulla cui base gli elettori sono stati chiamati a votare alle ultime elezioni politiche e l’Unione ha riportato la vittoria. In quel programma, infatti, si legge che tra “le cause del declino che investe il sistema paese” vi è “un sistema fiscale che penalizza il reddito di impresa rispetto alla rendita finanziaria”, si accusa il governo di centrodestra di aver “ favorito un’abnorme crescita delle rendita immobiliare”, si constata che “si è realizzato un drammatico impoverimento del potere d’acquisto dei redditi medio-bassi” mentre “è stato riconosciuto un vantaggio fiscale alla rendita piuttosto che ai redditi prodotti dalle imprese”, ci si impegna ad “attuare una nuova politica della concorrenza che miri”, tra l’altro, a “ridurre le rendite e la convenienza all’impiego di capitali nei settori che le alimentano tali rendite (immobiliare, autostrade, ecc.)”.

Le citazioni potrebbero proseguire, ma sembra chiaro che, sulla perniciosità del peso assunto delle rendite finanziaria e immobiliare, e sulla conseguente necessità di liberarne le altre forme di reddito, le valutazioni e le intenzioni fossero esplicite. Eppure, oggi, alla proposta di rendere efficaci gli impegni assunti, si reagisce - da parte degli stessi autori di quegli impegni programmatici - con timidezza, prendendo le distanze da chi quegli impegni dichiara di voler tradurre in atti di governo, e senza ribattere con la necessaria energia agli esponenti di quel capitalismo straccione, iperprotetto, pronto ad approfittare di ogni smagliatura del sistema degli accertamenti fiscali e di ogni occasione per socializzare perdite e privatizzare risorse pubbliche, generatore delle iniziative arrembanti dei “capitani coraggiosi” dediti all’assalto dei galeoni delle grandi banche e dei grandi giornali con i proventi dei raggiri finanziari.

Forse, per comprendere le ragioni di un simile atteggiamento, converrà ripercorrere l’amara esperienza del ministro democristiano Fiorentino Sullo e il saggio dedicato da Valentino Parlato al “blocco edilizio”. Forse l’Italia (il suo popolo, i suoi elettori, il suo sistema economico) sono così intrisi dalla rendita e dalla concezione individualistica della proprietà che i governanti avveduti sono costretti a recitare, con la Zerlina del Don Giovanni, “vorrei… e non vorrei, mi trema un poco il cor”.

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