Ma che cosa intendiamo con questa espressione? È utile fornire qualche precisazione. I frequentatori di eddyburg sanno che per noi le parole sono molto importanti. Le parole sono le pietre con le quali si costruiscono i discorsi, le ideologie, le opinioni correnti. Con le parole si possono generare movimenti, azioni, politiche; si possono determinare credenze e comportamenti, valutazioni, esclusioni e inclusioni.
Affermare che la città è un bene comune significa in primo luogo riconoscere che essa è un bene, non una merce; qualcosa che vale di per sè, non in quanto può essere scambiato con altri beni o con la moneta. Comune, quindi non individuale: un insieme di elementi materiali e immateriali che solo temporaneamente e occasionalmente possono essere goduti o fruiti da uno dei membri della comunità, ma che appartengono alla comunità nel suo insieme.
Il nocciolo della definizione sta nel processo stesso di formazione (di invenzione) della città: nel suo essere nata in funzione del soddisfacimento di esigenze che i singoli individui, famiglie, tribù non erano in grado di soddisfare senza unirsi, collaborare, condividere. E infatti la città, nei suoi più alti momenti fondativi, si organizza e diventa forma compiuta attorno ai luoghi delle attività e delle funzioni comuni. La piazza, il luogo dello scambio e del rito, dell’incontro e della rappresentazione,della concentrazione degli edifici e dei servizi pubblici, è l’essenza e il simbolo della città.
Da qui, dalla storia stessa della città, il ruolo determinante degli spazi pubblici, della loro fruizione aperta, della loro appartenenza pubblica, della loro gestione condivisa. Lo si comprese lungo quel percorso culturale, sociale e politico che condusse agli “standard urbanistici”. E da qui, dalla perdita di un simile ruolo, dalla negazione e dalla privatizzazione degli spazi pubblici, la testimonianza e, al tempo stesso, una causa rilevante della crisi della città e della società.
Negli stessi anni in cui si raggiunse l’obiettivo degli standard urbanistici si inventò un’espressione nuova per un’altra rivendicazione sociale, che si apparenta a quella per gli spazi pubblici: la casa come servizio sociale. Con questa espressione non si affermava che si dovesse provvedere a soddisfare gratuitamente, o a un prezzo “politico”, alla casa per tutti, ma che il soddisfacimento dell’esigenza di un’abitazione inserita in un complesso di opportunità e servizi urbani era un diritto per ogni cittadino, qualunque fosse il suo reddito, e che toccava al governo pubblico provvedervi, sia regolando il mercato privato sia impegnandosi in provvedimenti specifici per chi ne avesse maggior bisogno. Quella rivendicazione (è il caso di ricordarlo) gradualmente condusse a una politica della casa molto articolata, che partiva da una consistente riduzione del peso della rendita fondiaria sul costo degli alloggi, alla programmazione dell’intervento pubblico di sostegno all’edilizia a particolari condizioni d’accesso, alla regolazione infine del prezzi nello stesso mercato privato.
Affermare che la città è un bene comune significa quindi riallacciarsi a questi due temi: la centralità degli spazi pubblici e il carattere sociale della residenza. E significa anche collegarsi a un altro rilevante principio, presente da tempo nella letteratura mondiale: il diritto alla città. Se quest’ultima espressione si riferisce principalmente ai soggetti – ai cittadini – si può dire che la città come bene comune rappresenta lo stesso concetto dal punto di vista dell’oggetto – la città - che al soddisfacimento di quel diritto è ordinato. Pensare e organizzare la città come bene comune è un modo (l'unico modo) di garantire a tutti il diritto alla città.
È facile comprendere quanto oggi i principi espressi da quei termini siano minacciati.
Lo si coglie dalle parole stesse che sono divenute di moda nel parlare delle città, e nelle pratiche che a quelle parole fanno seguito. Si rifletta alla parola competizione, che sembra dover costituire il perno delle politiche urbane di questi anni. Ogni città deve competere con tutte le altre, deve accrescere le sue “qualità” e le sue “prestazioni” non per accrescere il benessere dei suoi cittadini ma per attirare meglio delle altre i suoi acquirenti: gli investitori, i turisti, i finanziatori di eventi. La povertà non va sconfitta nelle sue cause, va nascosta per tenere alto il “decoro” della città. È, insomma, la città che diventa merce, che si offre sul mercato gareggiando con le altre per sconfiggere la concorrenza. Avete mai riflettuto che dei due significati di questo termine, “correre insieme” e “correre l’uno contro l’altro”. ha nettamente prevalso il secondo?
E lo si coglie nei fatti. Ma di questi ci siamo occupati a lungo nei precedenti eddytoriali, e nell’articolo scritto in questi giorni per la rivista Left, ad essi rinviamo i lettori.
Alcuni approfondimenti sugli standard urbanistici li trovate nel’edditoriale n. 101 e nell’articolo su Carta, 30/2008; sulla politica della casa nella cartella Abitare è difficile; sulle riforme degli anni 70 nello stralcio da Fondamenti di urbanistica.
Sulle parole trovate qualche articolo di carattere generale nella cartella Le parole, alcune definizioni nella cartella Glossario. Sul mercato potete leggere l’eddytoriale n.105, e sui fatti che stanno avvenendo l’eddytoriale n.116.
L'immagine rappresenta una piazza di Carloforte, fotografata da Gianni Berengo Gardin